Giuseppe Videtti, la Repubblica 9/2/2013, 9 febbraio 2013
LONDRA
Ma quale Madonna latina. Gloria Estefan è l’antidiva per eccellenza, una telenovela ambulante. Madonna è una mangiatrice di uomini pluridivorziata, Gloria è fedele da trentacinque anni al suo Emilio. Madonna aspira all’Olimpo delle Marilyn e delle Marlene, Gloria all’abbraccio della gente comune. Madonna irrita il Vaticano, Gloria chiede udienza. «Sono stata in Italia per incontrare Papa Francesco, un leader straordinario, l’uomo di cui la Chiesa aveva bisogno», racconta poche ore prima di un trionfale concerto alla Royal Albert Hall di Londra, una delle sue rare apparizioni
live.
«E adesso ho una famiglia italiana perché mio figlio Nayib ha sposato Lara Diamante Coppola De Dominicis, una ragazza di origine milanese che viveva in Venezuela con i genitori». Nonna a cinquantaquattro anni. «È una benedizione », mormora. «Sasha Argento ha due anni, è un bambino biondo, occhi chiari, forte senso del ritmo. Sto ore a gattonare, cantare e ballare con lui. Sa che il suo bisnonno era un cantante d’opera? Camillo Coppola De Dominicis ». Inevitabilmente il pensiero vola a quella volta che arrivò a Modena per duettare con Big Luciano al Pavarotti & Friends: «Cantammo
Fiorin fiorello,
la canzone che aveva accompagnato le nozze dei suoi genitori. Ho collaborato anche con Carreras, Domingo… sono stata un’artista fortunata. E con Sinatra! Frank aveva alloggiato all’hotel Cardozo di Miami, ora di nostra proprietà; in quell’albergo girò
Un uomo da vendere
del 1959. Ricordo il giorno in cui incidemmo il nostro duetto con l’orchestra, io ero incinta di Emily, la nostra secondogenita. Cenammo insieme, io lui e mia madre. È sempre stata una sua fan».
Quando Sinatra girava a Miami con Frank Capra, la piccola Gloria María Milagrosa Fajardo aveva due anni e viveva all’Avana con i suoi genitori. Troppo piccola per capire quel che stava accadendo nell’isola; la fuga a Miami era già un progetto concreto. Prima della rivoluzione, suo padre era un mi-litare, guardia del corpo del dittatore Fulgencio Batista; in patria fu prigioniero politico per aver combattuto contro Castro nella Baia dei Porci, negli Usa subito arruolato e spedito in Vietnam. «Mia madre gli inviava cassette registrate con le mie canzoncine, lui a sua volta ci faceva recapitare lunghi e affettuosi messaggi vocali. Non voleva che mia sorella e io dimenticassimo la sua voce. A Cuba non c’era stato molto tempo di stare insieme. Il paese era in fermento e mio padre, sempre fuori casa, intuiva molto chiaramente quel che stava accadendo. Così fui affidata alle cure della nonna. Mia sorella, che ha sei anni meno di me, nacque a Miami quando avevamo iniziato a vivere come una vera famiglia. Papà l’adorava, restava a casa a cullarla la domenica, mentre io e la mamma andavamo a messa. Durante il tour di
Unwrappedcantai
un duetto virtuale con la Gloria che aveva nove anni, la canzone era
Cuando salí de Cuba
che cantavo per mio padre — secondo molti fan quello è stato il momento più emozionante della mia carriera». Si commuove. «Ho preso tutto da lui. Tranquilla, introversa, timida, più interessata a osservare che a essere guardata, uno spiccato interesse per la musica. Ascoltavo i long playing mentre ero in braccio a mia madre, non sapevo ancora leggere ma guardavo incantata le copertine. Adoravo Joselito, il cantante- bambino spagnolo — che cotta!».
José Fajardo morì di sclerosi multipla nel 1980, quando Gloria era già moglie del produttore Emilio Estefan e con i Miami Sound Machine muoveva i primi passi della gloriosa carriera che avrebbe trasformato la famiglia in un potentato della latin music. «Non credo si rendesse più conto di niente, neanche riconosceva i familiari. Il giorno delle nozze andai a trovarlo in ospedale con l’abito da sposa — quella fu la prima volta in tre anni che pronunciò il mio nome». A Gloria restò la paura. Divenne ipocondriaca e apprensiva. Cominciò a temere per la salute della madre, che ora ha ottantacinque anni, di Emilio, dei suoi figli,
persino degli amici. «Vedevo pericoli ovunque. Immaginavo i miei cari coinvolti in incidenti stradali, rapimenti, malori. Per dieci anni sono stata la creatura più infelice e pessimista della terra. Non immaginavo che quelle premonizioni fossero indirizzate a me». Il 20 marzo del 1990, durante il tour di
Cut both ways,
il bus con a bordo l’artista e la sua band fu investito da un camion durante una tempesta di neve nei pressi di Scranton, Pennsylvania — fratture multiple alla spina dorsale: pericolo di vita, dieci mesi per recuperare la mobilità. «Paura? No. Il risveglio in ospedale fu la rinascita, la fine dell’ossessione. Ero io la vittima! Ormai era successo, non avevo più nulla da temere».
Disco queen e icona gay con i Miami Sound Machine, esponente di spicco del Cuban sound post-Celia Cruz (nel ’93 il pluripremiato
Mi tierra
rinnovò il patto di sangue con l’isola), raffinata interprete di evergreen americani celebrati nel recente cd
The standards,
Gloria Estefan ha venduto in tre decenni oltre cento milioni di dischi.
«La Gloria cubana e quella americana vanno piuttosto d’accordo», scherza. «Vivere in bilico tra due culture mi ha arricchito. Sono venuta a Miami a due anni e mezzo, pensavamo che saremmo tornati a casa molto presto, quindi abbiamo mantenuto saldi i contatti con le radici. Quanto a me, ho imparato a parlare e a cantare contemporaneamente, con l’aiuto di mia madre, che aveva la musica nella pelle. Ascoltava i dischi che si era portata da Cuba — Celia Cruz, Javier Solís, Los Panchos — ma anche Nat King Cole (che era stato a Cuba e aveva inciso diversi dischi in spagnolo), Frank Sinatra e Dean Martin. Ho un vocabolario musicale che va ben oltre il pop americano. Sono cresciuta con i Beatles e Gerry & the Pacemakers, avevo una sorta di adorazione per il brano
Ferry cross the Merseyche
orecchiai a sei anni mentre ero con la mamma in una lavanderia a gettone; sento ancora quell’odore di biancheria pulita ogni volta che lo riascolto. Solo più tardi avrei capito perché:
Ferry Cross the Mersey
aveva molti elementi di musica cubana, maracas, bongos, l’andamento di un bolero — non dimentichiamo che uno dei primi brani incisi dai Beatles fu
Besame mucho.
Ora
The standardsè
la chiusura del cerchio, una celebrazione della musica che amo. Non a caso ho inserito nel repertorio anche
El dia que me quieras,
la canzone che cantai il giorno delle nozze con Emilio. Ma ancheWhat
the Difference a Day Makes,
il primo brano che ho cantato in inglese;
Smile,
una canzone che cantavo a mio padre accompagnandomi con la chitarra, e piangevo e piangevo tradendo il significato stesso delle parole;
Embraceable You,
la melodia con cui cullavo mia figlia».
Alla fine, la priorità è sempre la famiglia. Non c’è modo di indurla al gossip, di provocarla con aneddoti sugli anni folli in cui faceva ballare i febbricitanti del sabato sera. «Mi piaceva la disco, all’inizio suonavamo cover di Donna Summer e Thelma Houston, ma non eravamo tipi da discoteca», taglia corto. «Lavoravamo come pazzi, stavamo dall’altra parte, e sinceramente non ho mai rimpianto di non aver fatto parte della cricca dello Studio 54. All’epoca Emilio mi spingeva a crearmi un’immagine. Fin da quando eravamo fidanzati mi diceva “come donna sei perfetta ma come performer puoi migliorare del novantacinque
per cento”. E io sconsolata: allora ti sei innamorato solo del cinque per cento? Se siamo insieme da una vita è perché nessuno dei due ha mai mancato di rispetto all’altro. Sono cresciuta con l’idea che l’amore è per la vita, anche tra persone dello showbusiness. Ci sono altri esempi: Paul Newman e Joan Woodward hanno avuto uno splendido matrimonio. Mio padre diceva sempre,
cada persona es un mundo,
ogni persona è un mondo a sé — anche tra la gente comune i matrimoni vanno a rotoli piuttosto spesso».
Ha perso una patria ma ne ha trovata un’altra che l’ha riempita di attenzioni e d’affetto, eppure non ha mai smesso di sentirsi in esilio. «Mai. Più che di esilio parlerei di nostalgia per l’assenza di una patria, quella che mia madre ha conosciuto e io ho cercato di onorare attraverso le canzoni e il business della ristorazione. Il mio bisnonno lavorava nel Palacio, la Casa Bianca dell’Avana, ha cucinato per due presidenti. E mia nonna, che è morta nel 1985 qui a Miami, cominciò ad affiancarlo quando aveva dodici anni, durante la Grande Depressione. Il sogno è sempre quello di tornare. Mi piacerebbe esibirmi in una Cuba libera, per festeggiare il futuro di un nuovo paese. Noi esuli non siamo i nemici, come sempre hanno fatto credere, né ingordi capitalisti che vogliono riprendere possesso di quel che hanno lasciato. Tornerei solo se potessi essere di qualche aiuto o per festeggiare una nuova era. I cubani vivono male, isolati dal mondo, non hanno internet, la gioventù è depressa, poche speranze, nessuna motivazione. Continuano a sognare la fuga — neanche loro vogliono più aspettare che quei condizionali diventino presenti, non vogliono sciupare una vita intera sperando nel cambiamento, vogliono sentirsi parte del mondo. Dicono che il momento è vicino. Non mi faccio illusioni, è una vita che lo sento dire».