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 2013  febbraio 09 Sabato calendario

La casa di Arturo Brachetti è uno spettacolo d’arte varia, un teatro delle meraviglie. È un costume fatto di mattoni, giocattoli e trucchi

La casa di Arturo Brachetti è uno spettacolo d’arte varia, un teatro delle meraviglie. È un costume fatto di mattoni, giocattoli e trucchi. Una casa dove niente è vero perché tutto è vero. Una casa che quasi non è, ma sembra. L’isola di Arturo è un pezzo di Arturo, è il suo stile, il suo divertimento, persino la sua bizzarra malinconia che improvvisamente appare e scompare in qualche armadio dell’anima, laggiù nel profondo. «Vedi questo raggio di sole finto che si posa sulla serratura finta di una cantina finta?» domanda lui, mentre armeggia con la chiave. Si volta all’improvviso e ti guarda con quel sorriso uscito dal manifesto, quasi un logo, come il famoso ciuffetto. Il volto è appena ombreggiato di stanchezza dopo centodieci repliche a Parigi e settantamila spettatori, mai fermarsi, è già pronta la prossima avventura con debutto a marzo. Per ora, si conosce solo il titolo: Brachetti che sorpresa! La finta cantina è invece un vero appartamento su due livelli nel Palazzo Chiablese, accanto a dove vivevano i Savoia, nel cuore del cuore di Torino. Sarabanda di oggetti, repertorio di curiosità da mercatino: il valore commerciale è basso, quello affettivo ed emotivo è inestimabile. «Mi spiace sempre quando parto, e devo lasciare la casa in mano ad altri». Arturo apre un armadio, oddio, adesso sparisce. E invece è l’unico angolo normale di tutta la casa, Brachetti si leva gli stivali come se li leverebbe chiunque, poi comincia lo show. «Guarda dentro quella cornice senza quadro, cosa vedi nel muro?», chiede. Niente, solo mattoni. «Concentrati, dai!». E il quadro di colpo si apre, la parete si sposta, non erano mattoni, era cartongesso, c’era sotto un binario, ecco la casa che si muove e scivola di lato. Come fa lo sguardo, come fa ogni pupilla rotolante quando Arturo va su e giù, mai quieto un attimo, tu parli e lui segue un altro filo di pensieri, Arturo non è qui, non è di questo mondo pesante. Lui vola. «Ecco la mia cow-parade, la collezione di mucche travestite: la mucca ape, la mucca zebra, la mucca tigre, la mucca tagliata in due dal mago, la mucca in levitazione». Il salone è grande, il divano rosso, sul bracciolo è appoggiato un Arturo marionetta che sorride, quel viso, quel ciuffo. In casa Bra- chetti, Brachetti è ovunque, appare e scompare e riappare, cambia forma e sostanza inseguendo lo stupore degli altri. «Le seggiole sono quelle del palchetto reale del Teatro Carignano, ci si è seduto anche Mussolini». Perché le cose, qui dentro, sono un repertorio trasmigrante. «Quel copricapo l’ho ciulato io alle Folies Bergère, anzi è stato un recupero protettivo, sapeste quante cose vengono abbandonate, sapeste quanta roba compro per due lire nei mercatini di tutto il mondo, tipo questo coso qui»: e indica un grammofono che invece della tromba d’ottone ha un violino, è da lì che escono suoni e parole. Arturo fa una piroetta, giocando al gioco di casa sua, accarezza l’enorme tigre Moira («Fai cuccia!», intima al sontuoso peluche), poi spalanca la porta del “bagno di Magritte” dove tutto è nuvole nel cielo azzurro. Apre un passaggio segreto nella libreria ed ecco il suo ufficio, ecco la foto di Arturo con Woody Allen che lo abbraccia, ecco il cannone nero che spara aria (Arturo lo aziona e ti fa “bum!” in piena faccia), ecco l’acrobata azionato dalla monetina, le marionette di Praga, l’angolo di Fregoli, il buddha nella nicchia, il prete con l’orecchino di Carmen Miranda, il telefono che invece è una lampada, il cilindro minuscolo: «È per il mio ciuffo», dice Brachetti mentre lo indossa, spalancando un sorriso da Pierrot. La macchina scenica domestica risponde perfettamente alle esigenze di questo viaggiatore delle metamorfosi, i muri sono del 1703, il resto appartiene al tempo della fantasia: «Ogni pezzo e angolo della casa li ho pensati io, ci abbiamo lavorato due anni, dentro un cantiere che non finiva mai. Il finto recupero strutturale di quell’arco lì, vedi?, è in un posto dove non c’entrerebbe niente, infatti non c’era». Come in una tana di Alice, gli specchi moltiplicano immagine e illusione, chissà dove mai sarà il confine, o magari sono due parole per definire la stessissima cosa. «Tutto il mio lavoro, forse tutta la mia vita si appoggia sul punto di vista. Per andare da A a B si può passare da M, nessuno ci pensa ma io, su quello spiazzamento, costruisco un universo». Si entra in un altro bagno, quello in stile Keith Haring, dove dal rubinetto esce acqua colorata, rossa la calda, blu la fredda, questa è proprio una meraviglia. «Mavalà, è un aggeggio di una ditta di Biella, puoi comprarlo anche tu, dopo ti do l’indirizzo». Sulla lavatrice dorme un piccolo Pinocchio, accanto alla cucina di Nonna Abelarda (banane di marmo, finte marmellate rovesciate) dove una vecchia tv trasmette solo Caroselli. «Forza, trovate il frigo», dice Arturo e davvero non è facile, il nascondimento è la prima regola qui. La mano dell’artista apre uno sportello, estrae un uovo, lo lancia sul pavimento e quello rimbalza invece di spiaccicarsi. Lo spettacolo continua, si passa dalla porta al contrario che si apre sul battente e non sulla maniglia, si beve un succo d’uva dentro una tazza che sembrava un teleobiettivo, del resto il telefono è una bottiglietta di ketchup. Invece la stanza da letto è una zattera, e dietro la testiera c’è un affresco in stile Flandrin con Arturo nudo che dorme su uno scoglio. Molti giornaletti di Topolino in uno scatolone, e sul comodino un libro, I segreti del linguaggio del corpo, più chiaro di così si muore. «Datemi un attimo, torno subito». E un’altra porta si spalanca sul bagno mistico, una specie di cappella in stile Codice Da Vinci, i led nella vasca, crocifissi ovunque, false e vere candele su un pavimento di finti sassi. E ancora restano da vedere il gabinetto delle meraviglie, dove Arturo sotto una cupola trasparente esce da un baule, vestito da Pulcinella, tra un piccolo caimano e una farfalla finta che davvero vola in un vaso di vetro. «Amo il falso e l’arte che occorre per realizzarlo». Poi il padrone di casa invita a scoprire l’ultima stanza invisibile, che si manifesta dietro un porta-asciugamani («C’è sempre l’opzione B per risolvere qualunque problema, però bisogna saper guardare, saper cercare»). Resterebbe un’ultima scena, ma è un paesaggio, è il panorama di tetti, chiese e palazzi che si spalanca dalle vetrate, quassù al secondo piano. «Devo stare attento a non uscire in mutande sul balcone, altrimenti dal campanile del Duomo mi potrebbero vedere». Anche il più grande trasformista al mondo sa che l’ultimo costume, o forse l’unico, è un corpo nudo.