Piero Melati, il Venerdì 7/2/2014, 7 febbraio 2014
LA NOTTE DEGLI SCRITTORI VIVENTI
Il fantasma di Philip Marlowe, il più famoso investigatore privato del XX secolo, apparve allo scrittore americano James Sallis in un appartamento di Londra, due stanze senza riscaldamento, prese in affitto dalle parti di Portobello Road, in un gelido inverno di molti anni fa. Sallis, autore della sceneggiatura del recente film di culto Drive, si era chiuso in casa con l’intera collezione delle opere di Dashiell Hammett e Raymond Chandler (quest’ultimo, appunto, l’inventore del personaggio Marlowe). Rintanato sotto le coperte, bevendo litri di tè bollente, Sallis faceva scorrere le pagine del Falcone Maltese, Il Grande sonno, Raccolto rosso, Il lungo addio. Cercava la pietra filosofale della «scuola dei duri», il segreto di quel genere letterario che soppiantò gli stiletti e i veleni del giallo classico inglese, per restituire il delitto al suo luogo naturale, la strada.
Marlowe apparve a Sallis come Bogart a Woody Allen nel film Provaci ancora Sam. All’improvviso e come per incanto. Da quel giorno, Sallis divenne uno scrittore accreditato, autore di due trilogie noir, amato da Hollywood e uno dei massimi esperti della vecchia «scuola dei duri». Se qualcuno gli chiedesse «ma davvero Philip Marlowe ti è apparso in carne ed ossa?», lui svicolerebbe. Vi direbbe (citando Hammett, che citava a sua volta Anatole France) che la frase migliore è la più breve, e che la vostra domanda è troppo lunga. Anche lui deve essere un po’ bastardo, come dissero di se stessi Chandler e Hammett, bollando così anche i loro personaggi (non solo Marlowe, ma anche l’investigatore hammettiano Sam Spade). Sallis glisserebbe sul fantasma di Marlowe, sostenendo che realtà e fiction si attraggono come poli inseparabili. Da qui la longevità di certi personaggi, che sopravvivono persino alla morte dei loro creatori. Hanno un segreto? Si, ce l’hanno, dice lui. La potenza della finzione di cui sono fatti è più vera del reale. Come certi sogni. E questo li rende simili a miti moderni, che travalicano tempo, gusti, generazioni.
Più o meno allo stesso modo la pensa anche John Banville, il bestsellerista irlandese autorizzato dagli eredi di Chandler a redigere un nuovo Philip Marlowe, dopo che nell’89 lo scrittore Robert B. Parker aveva completato l’incompiuto Poodle Springs, ultimo lavoro con Marlowe protagonista. «Da dove vengono queste persone immaginarie che sembrano avere una vita propria? Non sembrano esistere al di fuori delle parole, eppure sembrano molto reali. Davvero strano» ha detto una volta. E forse, Sallis e Banville citerebbero anche Sherlock Holmes. Questi, parlando del Mastino dei Baskerville, disse: «Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità». Fosse pure un fantasma.
Nell’era del copia&incolla, dei remix e dei prodotti artistici campionati, non si inventa più nulla. Tutti a caccia di fantasmi, per spolpare storie epiche e personaggi universali. La rincorsa al brand «vecchio, ma di successo» è sempre aperta. Le continuity ispirate a Jane Austen, i sequel di «sempreverdi» come Via col vento, gli universi paralleli espansi (Star Trek, Guerre Stellari), i gialli con i grandi scrittori spacciati per detective (da Dante a Poe), le saghe infinite come quella tolkeniana. Per un Dan Brown o un Harry Potter che aprono strade nuove, c’è sempre una Anna Rice (Intervista al vampiro, 1976) che torna all’intramontabile Dracula di Bram Stoker, e fertilizza il terreno per la recente rinascita del genere «non morti» (da Twilight ai dark romance). L’industria editoriale e lo showbiz hanno sempre fame di grandi numeri, come gli zombie. Eppure non c’è gara. L’asso di maggior successo sta sempre nella manica di un protagonista forte. Se becchi quello, è quasi fatta. Certo, rimetterlo in moto non è facile, con altri stili ed altre penne. Si rischia sempre l’effetto Frankenstein. Però ci si prova ancora, almeno in tre clamorosi casi di vita eterna: Philip Marlowe, Sherlock Holmes, James Bond.
Un grande studio di avvocati. Come quelli che abbiamo visto nelle fiction tv americane, da Boston Legal a The Practice. In sala riunioni, una squadra di esperti di markenting, come quella di Mad Men. Seduti di fronte, gli eredi legali di un brand vincente e i loro curatori d’affari. In queste stanze, le chiacchiere stanno a zero. Un prodotto editoriale (secondo canoni italiani) è accettabile sulle 15 mila copie vendute, è un successo se tocca quota 50 mila. Il resto è fallimento. Qui sono stati presi in ostaggio i nostri eroi di carta. Un cerchio magico decide la gestione dei loro anniversari, i nuovi prodotti da spingere, i prequel e i sequel. A monte, ci sono state controversie giudiziarie infinite. Quella su Chandler, per esempio, è stata devastante. Lo scrittore di Chicago, dopo la morte della più anziana moglie, avvenuta nel 1955, e un tentativo di suicidio, due anni dopo si legò alla segretaria, Jean Fracasse, un’australiana separata con due figli. La nominò sua erede, ma nel frattempo ebbe una relazione anche con l’agente letteraria Helga Greene. Cambiò due volte il testamento. Da qui una faida degna dei Borgia.
Il caso di Sherlock Holmes influenzò addirittura la modifica della legge sul diritto d’autore. Il canone tradizionale delle storie del detective, attribuito al suo creatore, Arthur Conan Doyle, conta quattro romanzi e 56 racconti. Sessanta opere in tutto. Leslie Klinger, considerato il più importante studioso vivente del personaggio, si era rivolto al tribunale di Chicago, sostenendo di non aver violato il diritto d’autore per l’uso di opere precedenti il 1923, decretate ormai di dominio pubblico. Gli eredi dello scrittore sostenevano, invece, che dovevano essere ripagati per alcuni «aspetti complementari», relativi a scritti posteriori al ‘23. Quali? Bastava che l’inquilino del 221 B di Baker Street suonasse il violino in un racconto, perché questo particolare fosse da considerarsi un «gesto caratteristico» tutelato da copyright. La legge prevedeva in passato una tutela del diritto fino a 50 anni dalla morte dell’autore (75 nel caso gli eredi siano una società). Nel 1998 la tutela del diritto venne estesa per altri vent’anni, mentre per le opere precedenti al 1978 fino a 95 anni. La legislazione europea, al contrario dell’americana, ha rinnovato i diritti anche alle opere nel frattempo scadute. Risultato? Una giungla. Così, in genere, si preferisce stringere un accordo tra le parti. Per evitare di farsi a pezzi in tribunale.
Diverso il caso di Bond. La spia più famosa del mondo vale cento milioni di libri venduti (oltre 60 i romanzi, più racconti e serie parallele). Affare lucroso sono i film (ben 23), e non scherzano neppure videogiochi e merchandising. Le avventure di 007 sono state celebrate, dopo la morte del suo autore, l’ex spia della Marina inglese Ian Fleming, da autori di grido del calibro di Sebastian Faulks (festeggiò con Non c’è tempo per morire il centenario della nascita di Fleming), Jeffery Deaver (2010), William Boyd (2013). La potente Ian Fleming Foundation detiene ogni diritto, compresa la scelta dei continuatori delle storie e le biografie ufficiali. Ma qualche guerra c’è stata, ad esempio con la Penguin, per il divieto di pubblicare la saga di 007 anche in e-book (fino al successivo accordo con Amazon) o con il gruppo rock italiano Casino Royale, per l’omonimia del nome della band con il primo titolo di Bond. Infine, grugniti anche contro Sky, per la fiction L’Uomo che voleva essere Bond, dedicata ai lati oscuri di Fleming, pratiche sadomaso comprese.
Forse anche Bond sarebbe diventato un altro, se Alfred Hitchcoch avesse accettato di girare il primo film. Doveva essere Thunderball, e non Licenza di uccidere di Terence Young del ‘62. Nel ‘59 Fleming scrisse a Eric Ambler, famoso autore di spy story. Ambler era sposato con la segretaria di Hitch. Fleming gli chiese di intercedere presso il regista per parlargli del progetto, «già ampiamente finanziato». Non se ne fece nulla.
Non scrisse più nulla anche Dashiell Hammett, negli ultimi decenni di vita. Ex detective della Pinkerton, aveva fondato la hard boiled school, cui appartenne anche Chandler, per «fare vedere» (al modo di Conrad, diceva) le menzogne della società. Aveva traghettato il mito della frontiera americana dentro i bar simili ai quadri di Edward Hopper, che popolavano le notti delle nuove metropoli. Si sentiva l’erede dei feuiletton di Dickens, che uscivano sui quotidiani dell’Ottocento. Scriveva su Black Mask e gli altri paperbacks da edicola. Riviste, una volta lette, destinate all’immondizia. Hammett ritenne tutto questo coerente con il rifiuto di fare i nomi degli amici comunisti, durante la caccia alle streghe. Preferì la galera. Ha trovato il suo cantore in un altro detective, Joe Gores. Non solo Gores gli ha dedicato un romanzo, Hammett, ma anche un prequel del suo Falcone Maltese (Spade & Archer) con il permesso (senza faide legali) della figlia Jo Marshall.
Hammett resta un mistero. Lui, uomo d’azione, è divenuto un uomo ombra, fatto di carta e parole. Come Chandler, Fleming e Conan Doyle. Luca Crovi, redattore della Bonelli, erede della scuola di Oreste Del Buono, ha tirato fuori dalle memorie del padre di Sherlok Holmes un episodio. Il rettore James Barrie, l’uomo che scrisse Peter Pan, era solito narrare che l’investigatore inglese, un giorno, aveva affrontato il suo creatore armato di coltello. Holmes aveva urlato a Conan Doyle: «Sciocco! Ti ho mantenuto nel lusso. Grazie al mio aiuto hai potuto scorazzare a piacimento, dove mai un autore era stato prima. D’ora in avanti viaggerai in tram». Poi Holmes era svanito in un anello di fumo. Come il Marlowe di Sallis, era un fantasma.
Piero Melati