Enrico Deaglio, il Venerdì 7/2/2014, 7 febbraio 2014
I RAGAZZI DEL ‘71 CHE BEFFARONO L’FBI
San francisco. Da qualunque parte la prendiate, questa storia del «Furto con scasso negli uffici del Fbi», è comunque una storia affascinante. È moderna – anzi modernissima – perché Edward J. Snowden e Julian Assange, praticamente hanno fatto la stessa cosa. Ma nello stesso tempo scalda i cuori degli ultrasessantenni, perché ricorda i tempi d’oro della disobbedienza civile e dei giornali e dei giornalisti, quando tutti e due, erano davvero una cosa importante, non quel tramestio di uffici stampa e organizzatori di eventi che sono diventati adesso. È una storia circolare, la si può cominciare in qualsiasi momento e di lì, come nei grandi racconti, andare avanti o riavvolgere il nastro.
Potendo scegliere, cominciamo così. Circa tre anni fa, Betty Medsger, famosa giornalista americana ormai in pensione, una carriera al Washington Post, stava cenando con alcuni vecchi amici accademici nella natia Filadelfia, quando il padrone di casa, quasi senza farci caso, la indicò alla figlia: «Cara, questa è la signora cui, quando eravamo giovani, avevo dato quei documenti dei quali ti ho parlato». A Betty Medsger cadde la mandibola, rimase con la bocca aperta e il cucchiaio piombò nella zuppa. Erano quarant’anni che cercava di scoprire chi era stato.
Passo indietro. Siamo nel 1971, negli Stati Uniti. La guerra nel Vietnam è al suo culmine e così il movimento di protesta. Alla fine di marzo di quell’anno, Betty Medsger, allora giovane reporter del Washington Post, riceve al giornale una busta con documenti fotocopiati, accompagnati da una laconica lettera che annuncia che questi sono stati trafugati in una sede del Fbi. È firmata da uno sconosciuto Comitato per la libertà dei cittadini. Il contenuto è, a dir poco, esplosivo: i documenti provano che il Federal Bureau ha in corso un vastissimo programma di spionaggio, controllo, infiltrazione nei confronti dei movimenti pacifisti e di quelli per i diritti civili degli afroamericani, che ha agenti in ogni università, in ogni libreria, in ogni assemblea, in ogni chiesa. L’obiettivo non è solo quello di monitorare il movimento, ma di screditarlo, provocarlo, impedirne la libertà di espressione. La giovane Betty si rende conto che i documenti sono veri. Provengono da un «furto con scasso» di cui si è avuta notizia, in una sede periferica dell’onnipotente Fbi, nella piccola cittadina di Media, alle porte di Filadelfia. Chiede al giornale di pubblicarli. Il giornale comunica l’acquisizione dei documenti al ministro della Giustizia, che preme perché non siano pubblicati. L’editrice del Washington Post, Katharine Graham, che diventerà famosa per analogo atteggiamento con il dossier del Watergate quattro anni dopo, dà invece il via libera. L’articolo di Betty Medsger esce in prima pagina con il titolo Documenti rubati provano l’esistenza di un controllo di massa della popolazione da parte dell’Fbi.
L’Fbi era allora la potentissima istituzione di spionaggio interno degli Stati Uniti, fondato e diretto fin dal 1924 da J. Edgar Hoover, l’uomo di cui si diceva, a buona ragione, che poteva ricattare chiunque in America e più potente, e pericoloso, di qualsiasi presidente. Tutta la sua struttura – ora si scopriva – era indirizzata allo spionaggio e alla repressione del dissenso. Dopo che il Washington Post pubblicò, seguirono altre rivelazioni a catena e il potere di J. Edgar Hoover, finalmente, cominciò a crollare.
Il signore che aveva invitato a cena Betty e aveva lasciato cadere, quasi fosse un aneddoto senza importanza, quella informazione, si chiama John Raines, ha ottant’anni ed è stato per tutta la vita professore di religione alla Temple University di Filadelfia. Betty, che per quarant’anni non aveva mai smesso di cercare di scoprire chi fosse l’autore del furto, non aveva mai sospettato di lui. L’autrice dello scoop, in sostanza, non aveva mai saputo chi fosse stata la sua gola profonda. Uno scoop, peraltro, che aveva cambiato il mondo. O perlomeno le sorti della democrazia e del giornalismo.
Ecco come andò. I tempi erano quelli della guerra in Vietnam vista da Nixon e Kissinger come il baluardo dell’Occidente contro il dilagare del comunismo. I comunisti erano il principale nemico interno dell’America su cui l’Fbi, quasi fosse la sua missione, indagava fin dagli anni Trenta. Gli Stati Uniti erano pervasi da un crescente movimento di protesta dei giovani, contro la guerra e il militarismo, l’autoritarismo, la segregazione razziale. Manifestazioni si svolgevano ovunque, i ragazzi rifiutavano la leva, nel sud i neri chiedevano, addirittura, il diritto di voto. Gli ambienti di sinistra sospettavano – e come dargli torto? – che l’Fbi fosse il Grande Fratello in grado di controllare ogni dissenso. Ma come fare a provarlo?
La pazza idea nacque in un gruppo di militanti pacifisti di Filadelfia, cresciuti nella locale chiesa cattolica. A prendere l’iniziativa fu William Davidon, studente di fisica, un militante del movimento contro la guerra. Davidon si convinse che le prove del misfatto contro la democrazia americana fossero proprio nel luogo di maggiore sospetto: negli schedari degli uffici del Fbi. Davidon era convinto che si potesse arrivare a questa prova, ma bisognava commettere un reato. Tecnicamente, un «furto con scasso», in inglese burglary. C’era una sede del Bureau nella cittadina di Media. Ufficio pubblico, orario dalle 9 alle 5, al secondo piano in un palazzo del centro. Gli impiegati, non facevano straordinari. Bonnie Raines, la moglie del professore di religione, allora una ragazza visibilmente hippy, si offrì per fare i sopralluoghi. Raccolse la chioma in un cappello di lana, indossò falsi occhiali da vista e si presentò come una studentessa in cerca di lavoro. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciare impronte digitali, e infatti non si tolse mai i guanti (quarant’anni dopo ha ricordato: «Il mitico Fbi non trovò strano che una ragazza in cerca di lavoro si presentasse con i guanti e non se li togliesse mai»). Bonnie fotografò mentalmente l’appartamento, i mobiletti con gli schedari, il sistema di allarme, le serrature. Il furto con scasso avvenne la sera dell’8 marzo 1971, giorno dell’incontro di boxe Muhammad Ali – Joe Frazier al Madison Square Garden di New York (tutti erano davanti alla tv, anche gli agenti), e fu abbastanza semplice: piede di porco, cesoie e cacciavite. Parteciparono in otto, guidati da William Davidon, riempirono due valigie di documenti dagli schedari, li portarono in una casa di campagna e li esaminarono. Poi vennero mandati ai giornali. Betty Medsger, a differenza di altri, non si spaventò e ottenne dal suo editore di pubblicarli.
E così avvenne che otto miti persone, spinte da una moralità prima ancora che da una politica, distrussero l’Fbi di J. Edgar Hoover. Nel corso degli anni, i documenti da loro resi pubblici, con sigle allora misteriose come COINTELPRO (trovata nei documenti trafugati, ma all’inizio enigmatica), divennero chiare. J. Edgar Hoover aveva formato un sistema di controspionaggio autonomo all’interno dello stesso Fbi, allo scopo di distruggere, ricattare, annientare le voci del dissenso. Feroce anticomunista fin dagli anni Venti, Hoover si era fatto un nome con l’arresto di diecimila sovversivi (molti dei quali italiani; Sacco e Vanzetti i più famosi) ed era diventato uno Stato nello Stato, temuto da tutti i presidenti (aveva un dossier sessuale su ognuno di loro). Contava su una rete di spionaggio enorme e negli anni Sessanta i suoi bersagli erano tutti nella nuova sinistra. Un odio particolare per gli afroamericani e per Martin Luther King, contro il quale Hoover scatenò ogni possibile nequizia; diffamandolo, minacciandolo e istigandolo al suicidio. Nessuna inchiesta, invece, nei confronti del crimine organizzato che allora dispiegava la sua massima potenza.
Naturalmente l’Fbi fece di tutto per scoprire gli autori del furto. Ma non ci riuscì mai. Davidon, Raines e gli altri, nemmeno Bonnie (quella che non si era tolta i guanti), vennero mai nemmeno sospettati. Loro, peraltro, dal giorno successivo ripresero il solito tran tran, né mai si vantarono in alcun modo di quello che avevano fatto. Solo alla fine della loro vita – e con il reato andato in prescrizione – acconsentirono di far conoscere a Betty Medsger quella loro avventura giovanile.
La dettagliata storia di quell’avvenimento è ora diventato, autrice Betty Medsger, il libro The Burglary che si avvia a diventare bestseller e che propone molte domande. Non solo per la nostalgia dei bei tempi andati, quanto per il fatto che la stessa storia si ripropone ora con il caso dello spionaggio elettronico della Nsa e la sua messa alla berlina da parte di Snowden. A quarant’anni di distanza, ecco di nuovo un furto con scasso. Era giusto, moralmente giusto quello di allora? È altrettanto giusto quello di Snowden oggi? Cosa può fare un cittadino per difendere la sua libertà da un sopruso commesso dalle autorità? Quale livello di crimine è concesso? Gli autori del «furto con scasso» nell’ufficio del Fbi in quel lontano 1971, se fossero stati catturati, avrebbero passato la loro vita in galera (e ne erano perfettamente al corrente). Oggi, e non solo perché i reati commessi sono andati in prescrizione, tendiamo a vederli invece come degli eroi. Non trassero profitto o carriere dalla loro azione, che fu innanzitutto dettata da una spinta morale; non ne fecero neppure un modello di comportamento per altri. Lo fecero, e basta. Perché cittadini, e basta.
Qual è invece la motivazione di Snowden, e prima di lui, di Julian Assange? I due sono oggi le più controverse star della democrazia. In forme diverse da quelle di allora (allora c’erano la copia carbone, le primissime Xerox, le schede scritte a mano, i folder appesi con i ganci a quei pesantissimi scaffali, eredità del mondo dell’acciaio), Assange e Snowden hanno compiuto un furto di materiale segreto in possesso di istituzioni che difendono la sicurezza dei cittadini; e lo hanno girato a giornali, che lo hanno pubblicato. Loro sono entrati in labirinti elettronici, nei metadata; uno dei punti di contatto con i loro antenati è che anche questi hanno scelto la carta stampata per diffondere le loro notizie; nel caso Snowden l’inglese The Guardian. Il risultato – lodevolissimo – è stato analogo. Hanno fatto conoscere ai cittadini che esistono istituzioni che li spiano, li controllano, possibilimente li ricattano al di là di qualsiasi diritto o necessità. Assange e Snowden rischiano condanne a morte per spionaggio, o gli ergastoli. Sono traditori che mettono a rischio la sicurezza dell’Occidente di fronte al terrorismo islamico? O sono patrioti che difendono i valori essenziali della democrazia? Che cosa li motiva? La passione democratica, o la ricerca della fama e del successo?
L’attuale scoperta della discreta, pudica, impresa dei loro antenati sembra dar loro quella dignità che la spettacolarizzazione ha tolto a Snowden ed Assange. E potrebbe insegnare molte cose ai cittadini di oggi, e non solo a quelli che frequentano le scuole di giornalismo.
Enrico Deaglio