Filippo Ceccarelli, la Repubblica 7/2/2014, 7 febbraio 2014
DIETRO AL DUELLO TRA ENRICO E MATTEO RISPUNTA L’ETERNA GUERRA TRA DEMOCRISTIANI
QUANDO Matteo Renzi è un po’ stanco, come ieri sera, sembra molto più democristiano di quello che è - e lo è davvero parecchio, essendo non solo figlio di un democristiano, ma dallo stesso babbo addestrato fin dalla più tenera età, povero innocente, a decifrare anche i pur minimi slittamenti che si andavano registrando attorno a De Mita, dalle parti di Forlani e perfino ai margini della corrente del Golfo.
Quando Enrico Letta, d’altra parte, si sforza di apparire più tranquillo di quanto sia realmente, come ad esempio nel momento in cui si è materializzato al Nazareno, l’innata sua democristianità è tale da conformare l’andatura con cui si è avvicinato al podietto, la postura presidenziale che ha assunto, nonché la sorvegliata disinvoltura con cui quest’altro «nipote d’arte» ha espresso pacatamente le sue considerazioni così sfumate, come ovvio, da rasentare la più naturale reticenza.
Purtroppo le riprese in streaming non hanno consentito al gentile pubblico di osservare in che modo, o meglio con quale simulata e/o dissimulata espressione del volto il segretario del partito ascoltava l’intervento del presidente del Consiglio. Ma certo la situazione, almeno per i più attempati osservatori della politica, era tutto fuorché inedita. C’è tutta un’affollata iconografia e sequenziale: Fanfani che guarda De Gasperi, Moro che guarda Fanfani, Andreotti che guarda chiunque altro e così via, per un quarantennio circa. Il fatto che l’uno volesse soffiare la poltrona all’altro era perfettamente e sistematicamente nella norma dello scudo crociato.
Un dualismo così codificato che qualche settimana fa un illustre funzionario e competente studioso del potere che su Europa si firma con il nom de plume di Montesquieu ha rinverdito lo schema applicandolo con i dovuti e maliziosi aggiornamenti ai post-democristiani Renzi e Letta: là dove al reciproco «sostegno formale» corrisponde un «sostanziale lavorio di segno opposto».
Ecco. Tra una verifichetta e un rimpastino la vecchia e cara ipocrisia è ricomparsa ieri in forma smagliante. I due rivali fanno finta di non esserlo, anzi una persona normale direbbe che vanno d’accordo. Ma la «staffetta» in realtà è già dietro l’angolo; così come per Letta è prevista una poltrona «in Europa» come si ventila con formula anch’essa tanto obliqua e generica quanto ostinata e minatoria. Insomma, meglio che si tolga di mezzo. E il bello, o il brutto, dipende, è che a spingere Renzi verso Palazzo Chigi è al momento chi non gli vuole tanto bene, e lui lo sa benissimo. Come del resto alla fine degli anni 80 lo sapeva benissimo De Mita e infatti resistette per quasi un anno, ma alla fine Forlani e quegli altri del Golfo ce lo spedirono lo stesso per cucinarselo meglio.
Bene. L’intera direzione di ieri è stata dominata dalla più criptica ambiguità di ordine iniziatico. I profani, cioè i cittadini comuni, non hanno afferrato niente di ciò che ieri era in ballo dietro le apparenze. Il tutto aggravato dalla vistosa fuffa che la Seconda Repubblica, con la sua attitudine a macroscopiche e megalomani strategie, ha introdotto nel discorso pubblico.
A un certo punto l’ex ghost-writer di Veltroni, il senatore Tonini, ai tempi assimilato per il suo aspetto a un barbuto frate cappuccino, se n’è uscito con una formula di natura ossimorica, «temperato dissenso», che ha suscitato il sincero ancorché ironico entusiasmo di Renzi, che di quel mondo antico, crudele e sapiente coltiva le raffinatezze fino a punto da ribattezzare i suoi collaboratori «Arnaldo» (come Forlani) e «Mariano » (come Rumor). Così ieri se n’è uscito: «Debbo dire che nel Pd è in corso un processo di democristianizzazione» ha scherzato, ma fino a un certo punto. Tanto da sentirsi in dovere di aggiungere: «Anch’io ho cercato di contenermi, riuscendoci con difficoltà, com’è noto».
Peccato per quel piccolo sbocco di narcisismo racchiuso nella compiaciuta espressione «com’è noto». I capi dc di una volta, che avevano paura di far peccato, non se la sarebbero fatta scappare. Ma il tempo sciagurato del turbo-ego non passa invano. E se solo si pensa che il Pd doveva o rischiava di essere l’erede e magari il continuatore del Partito comunista, beh, evidentemente la storia si diverte un sacco e l’unione di due democristoidi non fa mai somma intera.