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 2014  febbraio 07 Venerdì calendario

NELLA STRISCIA DI GAZA, DOVE NON SI VEDE LA LUCE IN FONDO AL TUNNEL


Tra i cumuli di terra smossa di Rafah, nella Striscia di Gaza, si ode solo il brusio discreto di un paio di generatori. Impera un calma irreale. Qui fino a pochi mesi fa dal sottosuolo si diffondeva il fracasso vibrante di un gigantesco cantiere a pieno regime. Tre camioncini semivuoti stanno fermi in attesa da ore nel grande parcheggio coperto per impedire che i droni israeliani possano individuare la qualità del carico. Poche sentinelle armate sbadigliano presso cumuli di immondizia, cartoni sventrati, cani randagi e depositi abbandonati. Il senso di noia, questa strana quiete, sono il riflesso evidente della grave crisi economica e dell’isolamento politico di Hamas, il movimento islamico palestinese legato ai Fratelli musulmani, che da quasi otto anni governa la Striscia di Gaza. Una crisi che crea divisioni all’interno del fronte islamico, caratterizzate dalla crescita di una corrente relativamente moderata, che vorrebbe aprire al dialogo con l’Autorità Palestinese e il vecchio Olp del presidente Abu Mazen.
Una volta, decine di automezzi sostavano in questa landa desolata soltanto pochi minuti prima di essere riempiti di merce: cemento, benzina, ricambi per auto, batterie, cibi di ogni tipo, elettrodomestici, qualche volta armi ed esplosivo. Ma oggi i lavoratori se la prendono con calma. Sono pochissimi sotto i tendoni semiabbandonati. Prima li vedevi giorno e notte, indaffarati a scavare, portare carichi, stanchi e impolverati. Sino a 10.000 uomini per turno. Non li scoraggiarono neppure i bombardamenti israeliani dell’operazione “Piombo Fuso” nel gennaio 2009. Il suolo mostra ancora le devastazioni degli ordigni. I crateri causati dai missili ad alta capacità penetrante, mirati a distruggere i tunnel trenta metri sottoterra, sono diventati gigantesche pozzanghere melmose dopo le piogge degli ultimi giorni. Allora furono sufficienti un paio di settimane per rimettere tutto in funzione. Ora non più.

L’effetto della caduta di Morsi. La catastrofe per Hamas è arrivata dopo il colpo di stato militare in Egitto all’inizio del luglio 2013 e l’arresto del presidente dello Stato e leader dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi. Poco dopo, il capo della giunta militare (e ora candidato alla presidenza) generale Abdel Fatah al-Sisi ordinava alle unità scelte del suo esercito la distruzione metodica dei tunnel per Gaza. Si calcola fossero un migliaio. Fu il blocco della linfa vitale di Hamas. Pare ne siano rimasti funzionanti, a singhiozzo, una decina e praticamente tutti controllati dal gruppo islamico. «È finita. Siamo in crisi totale. Non lavoriamo più. Eravamo i ricchi della Striscia di Gaza. Ma se continua così diventeremo i più poveri, costretti a elemosinare un lavoro qualsiasi», dice Hamdi Bashir, trentenne proprietario di uno dei tunnel. Il suo dramma è quello di una larga parte della popolazione residente nella cittadina di Rafah, a ridosso del confine con il Sinai egiziano. «I tunnel impiegavano 30.000 persone, con stipendi molto più alti della media. Un bravo lavoratore può portare a casa giornalmente sino a 120 shequel, quasi 25 euro. Sono somme che invidiano in tutta Gaza e ancora di più in Egitto. Il mio reddito personale sfiorava i 3.000 euro mensili. Da agosto però non vedo più un soldo. Avevo 50 dipendenti, ne ho tenuti 6 per la guardia e la manutenzione. Presto dovrò disfarmi anche di loro», aggiunge. Girando tra l’accampamento di tendoni divelti è facile trovare gruppetti di giovani intenti a calarsi nei tunnel per i lavori di pulizia e ricambio delle travi marce. Le gallerie sono lunghe in media 650 metri. Corre voce che se si riesce ad allungarle oltre il chilometro è possibile superare l’accerchiamento egiziano. Lo scavo costa però sui 15.000 euro. «Ci sto provando anch’io. Ma sono scettico. La parte egiziana pullula di spie. Prima era facile pagare il loro silenzio. Nell’anno di governo di Morsi oltretutto trionfò la politica dei tunnel aperti, senza limiti, non serviva neppure pagare le bustarelle agli agenti perché chiudessero un occhio. Però ora Sisi ha posizionato le sue unità più fedeli della Terza Armata, molto meno corruttibili della solita polizia locale», spiega Bashir.

L’indebolimento dell’ala dura. La conseguenza è il risentimento popolare nei confronti di Hamas. «Non abbiamo reddito, però il loro governo ci fa pagare le tasse. L’Olp non le ha mai chieste», dicono i padroni dei tunnel. Le loro posizioni cambiano con il mutare degli interessi. Ai tempi di Morsi erano felici che Hamas favorisse la politica dei “tunnel aperti”. «Eravamo con l’Olp, ma votavamo Hamas», ammettono. Ora vorrebbero che l’Olp aiutasse a facilitare i rapporti con Sisi. È un’altra delle profonde contraddizioni che attraversano l’universo palestinese, in Cisgiordania come a Gaza: Hamas sta con Morsi, l’Olp guarda con più simpatia a Sisi. Non è strano che, specie nei campi profughi in Cisgiordania, Libano e Giordania, stiano crescendo “comitati popolari” spinti dal sogno di superare i due partiti che storicamente dominano la scena politica palestinese con la speranza di esprimere nuovi leader in grado di creare un rinnovato movimento unitario. Ma per il momento è solo un sogno di poche avanguardie isolate, tra la maggioranza regnano delusione, rassegnazione e disorientamento. Un sentimento alimentato dalle recenti incertezze nelle piazze palestinesi di fronte al caos violento innescato dal degenerare delle “primavere arabe” in tutta la regione. «La confusione regna. In Siria una volta stavamo con Assad, poi le nostre simpatie sono andate ai ribelli. Con la comparsa di Al Qaeda però non sappiamo più che pesci prendere. In Iraq non capiamo se siano peggio il presidente sciita Nouri al Maliki o le milizie sunnite qaediste», spiegano i giornalisti locali. Ma anche tra i dirigenti di Hamas le divergenze crescono. La chiusura dei tunnel verso l’Egitto e il fatto di dipendere interamente da Israele per i rapporti con l’esterno incrementano gli attriti. Beni di prima necessità come cemento e ferro in pochi mesi hanno visto i prezzi crescere sino a 10 volte, la loro disponibilità per l’attività edilizia (che pure è tuttora fiorente grazie agli aiuti provenienti da Turchia, Qatar, Indonesia, Arabia Saudita e Unione Europea) resta alla mercé del governo Netanyahu. Da questa situazione traggono vantaggio i moderati legati al leader massimo di Hamas, Khaled Mashal. Questi, dopo aver lasciato nel 2012 l’esilio di Damasco in aperta polemica con la violenza della repressione voluta da Bashar Assad contro la sua gente in rivolta, si è trasferito in Qatar e perora la causa del dialogo con l’Olp. Ma contro di lui si schierano i fautori dell’ala “militarista” facente capo a Mahmoud Zahar, tra i leader fondatori di Hamas e ministro degli Esteri ombra, il quale non nasconde le simpatie per l’Iran e continua a condannare con durezza Abu Mazen. «Il gruppo dirigente di Ramallah resta schiavo degli errori della politica americana asservita a Israele», ci dice Zahar durante un incontro nella sua abitazione.

Una 23enne al vertice di Hamas. E tutto ciò mentre a Gaza la popolazione si è ritrovata a essere consapevole che le proprie condizioni di vita sono oggi migliori di quelle di tanti arabi sprofondati nella destabilizzazione dei loro Paesi. Gaza non è più l’unico inferno del Medio Oriente, ci sono ora luoghi molto peggiori. «Se non fossimo chiusi in questa grande prigione a cielo aperto, se non ci fossero il blocco israeliano ai nostri confini orientali e quello egiziano dal lato di Rafah, potremmo quasi dire di stare bene rispetto a tanti in Egitto e certamente in Siria», ammette Asma Al Ghoul, nota blogger locale trentenne che in passato si è scontrata con i radicali islamici della Striscia contestando le restrizioni imposte contro le donne e i giovani. Per questo occorre aprirsi al mondo. A Gaza più di ogni altra cosa il milione e mezzo di abitanti chiede la possibilità di movimento, di confini aperti, di libero transito delle merci. Si spiega anche così la scelta del gruppo dirigente moderato di Hamas di avere come portavoce Isra Almodala, una 23enne divorziata che ha studiato quattro anni in Inghilterra, non esita a criticare gli errori dei suoi capi e perora la necessità di «cambiare corso al più presto». «Siamo di fronte a sfide radicali. Israele si è ritirata da Gaza nel 2005. Ma il suo controllo sui nostri confini e sulle nostre esistenze è più serrato di prima», ci dice lei nel suo ufficio. «Io credo che i palestinesi debbano creare un fronte unico. Il rischio è quello di precipitare nelle mani degli estremisti».