Francesco Battistini, Sette 7/2/2014, 7 febbraio 2014
SONO CRESCIUTA FRA I MATTI DA SLEGARE DI MIO PAPÀ FRANCO
È una casa bella davvero in via dei matti numero… «Scenda dal vaporetto e suoni al civico 1968». Sta scherzando?... «È uno scherzo del destino: quand’ho trovato questo appartamento, mi veniva da ridere…». La figlia d’uno dei simboli del Sessantotto abita, davvero, in una casa al 1968 d’una calle veneziana. Sulla porta non c’è il nome perché forse quel nome, cominciamo da qui, è diventato un po’ come il Sessantotto: non si porta più tanto… «Dipende», sorride Alberta Basaglia: «Di Franco, oggi si parla in due modi. Se dicono chi è stato, allora ne fanno un santo: che buono, l’uomo che ha liberato i matti… La fiction della Rai, con Fabrizio Gifuni, è stata un successo. Se poi dicono quel che ha fatto, è tutto diverso: regge ancora l’equazione Basaglia uguale matti abbandonati. L’atteggiamento, giustamente, è negativo…». Giustamente? «È un fatto che la legge 180 sia stata applicata solo in poche città: se lei va a Trieste, non sente i soliti discorsi contro il farabutto Basaglia che ha messo fuori i matti, perché là è un dato acquisito che curarli non significa legarli». I matti da slegare… «Guardi che era mio padre il primo a pensare che non possono andarsene liberi per strada, anche se sapeva che non avrebbe vinto. Andò a un congresso in Brasile e l’ammise: abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile e che un manicomio può essere distrutto, ma io non so come andrà a finire. L’anno dopo, morì».
Più Sartre che Battisti. Nel manicomio liberato, Alberta Basaglia è stata bambina. In via dei matti è cresciuta. Con la follia ha giocato. Andava alla Montessori o al basket o faceva visita agli zii, come tante ragazzine. E come altre amava la radio a transistor e Patty Pravo, leggeva Pippi Calzelunghe e portava i kilt. In casa, perché formidabili erano quegli anni, s’ascoltavano le canzoni dei minatori del Sulcis più che Lucio Battisti, era proibita la tivù “oppio dei popoli”, la ninna nanna veniva da tinelli fumosi dove papà e mamma discutevano di Sartre e Marcuse. E ogni tanto, ecco che ne spuntava uno: il signor Toni a bere il caffè, “un sorriso mesto e gli occhi tormentati”; il Carletto senza più catene e camicie di forza, che lavava felice i parabrezza; la puzzolente signora Pierina, “come la strega di Biancaneve”, i capelli spettinati e la sigaretta sempre in bocca; il signor Velio, il pittore che strisciava il parquet di blu e d’arancio e colorava le pareti come aveva sognato per anni, quand’era rimasto legato sempre allo stesso letto… «Mio papà lasciava che venissi su in mezzo a queste persone. Non potevo avere con loro lo stesso rapporto che avevo coi genitori: conviverci, serviva a chiedermi le cose. A capire i diversi da me che facevano cose strane. Se cresci in un certo modo, diventi un adulto d’un certo tipo. Meno stupido di fronte a ogni povertà. Più capace di confrontarti». Non era pericoloso? «Non stavo sempre coi matti, ovvio. Però capitava… Anche se Franco provava di sicuro ansia, anche se non stava sempre lì a proteggermi, arrivava appena ne avevo bisogno. Quando compariva quella donna brutta e cattiva che si metteva dietro la porta, o qualche vecia mi tocchignava, il disagio c’era. Ma la mia percezione era comunque di non correre mai rischi. Imparavo che si può avere a che fare con le paure senza sentirsi in pericolo».
I folli nelle scuole. Su matti e bambini, Alberta ha costruito la vita. «Non mi sono mai posta il problema di studiare da architetto: il mio mondo era quello. Ed era automatico che facessi la psico-psico-qualcosa…». Psicologa dell’età evolutiva, studi in America. Oggi lavora col Comune di Venezia e prova a raccontare i folli nelle scuole. «Un giorno, i bambini hanno scoperto che mi chiamo come l’uomo che ha chiuso i manicomi. E allora sono partite le domande: ma che cosa ti diceva tuo papà? E loro come giocavano con te? Ho pensato: questa storia va spiegata. Devo raccontare come ho vissuto io, in mezzo ai matti». Alberta l’ha raccontato assieme a Giulietta Raccanelli, Le nuvole di Picasso, «una favola che non è solo Basaglia nell’intimità della famiglia: ognuno ha il papà che si merita e il mio, d’accordo, è stato un bel papà. Però a me importava descrivere quei matti e quel che ne capiva una bambina. I piccoli non hanno barriere: quando li incontro escono subito gli stereotipi sentiti in casa, ma dieci minuti dopo, basta, il matto non fa più paura. Fa ridere. Se un bambino cresce pensando che la diversità è parte della vita, nella vita saprà che non è obbligato ad abbracciare il diverso, che sia matto o nero o sporco, ma che può almeno stargli vicino. E non aver paura».
Alberta ha imparato e insegnato a chiamarli matti, senza falsi pudori: «Il problema non è il nome: è come hai a che fare. Con le parole ci si mette la coscienza a posto: sbatti “il migrante” o “l’uomo di colore” nei centri di Lampedusa, che non sono tanto diversi dai vecchi manicomi, e poi ti fa schifo peggio d’un negro… Io preferisco dargli del matto e andare a farci la spesa, più che chiamarlo “sofferente mentale” e magari legarlo. O fargli l’elettrochoc. O tenerlo negli escrementi dei manicomi giudiziari, queste cose da lager…». I manicomi giudiziari? Ma uno come il ghanese che a Milano picconava i passanti, scusi, dove andrebbe messo? «È una persona, non una bestia. Lo mettiamo in galera, come tutti. E facciamo sì che la galera sappia occuparsi anche d’un folle».
Incubo Babilonia. Non si parla più dei matti. La legge Basaglia fu votata cinque giorni dopo l’uccisione di Moro, in un’Italia che aveva altro per la testa. Una rivoluzione interrotta: il 70-80 per cento dei malati di mente ormai vive a casa o nel poco che s’è fatto per rimpiazzare i manicomi. Il 20 per cento è incurabile, spesso allo sbando. La Babilonia del Duemila, la definì l’ultimo ministro (Storace) che ha chiesto di rifare la legge. L’incubo di tante famiglie abbandonate a se stesse, grazie a quel «generoso quanto imbarazzante lascito degli anni ’70», come diceva Mario Tobino, lo scrittore psichiatra. La 180 continua ad avere estimatori più all’estero che in patria. Ma se oggi c’indignano i video dei tg sui deboli picchiati negli istituti, ha osservato Claudio Magris, lo dobbiamo comunque a Basaglia. «Lui non ha mai detto che la malattia mentale non esiste», dice Alberta, «e non è mai stato un antipsichiatra. Ha solo rifiutato il potere che dava il ruolo di psichiatra. Ha chiesto che questi malati fossero trattati come gli altri. Il diabetico aveva di che curarsi al meglio: perché il matto doveva stare dove lo curavano al peggio? Il problema è che il diabetico tace e fa quel che vuole il medico, il matto invece non tace. Ed esige un rapporto diretto. E spesso non lo trova». Pd, si chiamava una volta: Psichiatria Democratica… «Una cosa facile da proclamare, difficile da attuare. Trentasei anni non sono bastati». Eppure quella riforma, assieme al divorzio e all’aborto, è stata una bandiera civile della sinistra: che se ne fa adesso il Pd, nel senso del Partito democratico? «Niente. La subisce. La considera troppo rivoluzionaria». Rimessi fuori e rimossi dalla memoria… «A sinistra non ci si mette più in gioco su nulla, non ci si guarda mai dentro. Figurarsi i matti: è l’ultimo dei loro pensieri».