Giovanni Vigo, Sette 7/2/2014, 7 febbraio 2014
QUEL SOGNO EUROPEO RIMOSSO DA 7 ELETTORI SU 10
Fra il 22 e il 25 maggio i cittadini dell’Unione europea eleggeranno il loro Parlamento. È l’ottava volta che si recheranno alle urne e molti si chiedono che senso abbia una mobilitazione popolare così estesa se, a conti fatti, il Parlamento europeo è diventato un’istituzione sbiadita, priva di qualsiasi potere, e se il voto serve più a misurare i rapporti di forza fra i partiti nazionali che non a dare un indirizzo all’Europa. Gli elettori sono ben consapevoli che le loro scelte non hanno alcuna influenza sul destino dell’Unione e col passar del tempo si sono progressivamente allontanati dalle urne: nel 1979 aveva votato il 61,99% degli europei; nel 1994 il 56,67%, un calo comprensibile dopo l’euforia della novità. Poi il trend è rapidamente peggiorato: nel 2009 solo il 43% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne e gli ultimi sondaggi lasciano prevedere che quest’anno si raggiungerà a malapena il 40%.
La fragilità dell’Unione è sotto gli occhi di tutti. Quando si è trattato di sostenere i Paesi giunti a un passo dal tracollo finanziario si è assistito a un deplorevole scontro fra i Paesi ricchi (in particolare la Germania) e i Paesi poveri come se il fallimento di un piccolo Paese non avesse alcuna ripercussione sulla sorte dell’euro. Quando si parla di economia si dice che la crisi sta girando l’angolo ma non ha ancora compiuto interamente la svolta. È vero, ma intanto Bruxelles si crogiola nell’inerzia accontentandosi di stigmatizzare la lenta uscita dalla stagnazione e la persistenza di un’elevata disoccupazione rinviando la soluzione del problema alla “sovrana impotenza delle nazioni” come ha scritto di recente Jurgen Habermas. Quando si osserva la turbolenta politica internazionale – dalla drammatica crisi siriana alla rivolta degli ucraini che reclamano l’associazione del loro Paese all’Unione europea come ultima ancora di salvezza – Bruxelles sta alla finestra (è difficile considerare un’efficace iniziativa europea il patetico viaggio a Kiev di Catherine Ashton, che si fregia, chissà perché, del titolo pomposo quanto vuoto di “Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza”).
Di fronte a questo quadro desolante non dobbiamo meravigliarci se l’euroscetticismo dilaga alimentato dai partiti nazional-populisti che vedono nelle elezioni europee del prossimo maggio un’occasione quanto mai propizia per un clamoroso successo. Si tratta di formazioni presenti in tutti i Paesi dell’Unione, dall’Italia di Roberto Maroni alla Francia di Marine Le Pen, dall’Olanda di Geert Wilders alla Finlandia di Timo Soini, fino all’Inghilterra di Nick Griffin e all’Austria di Joseph Bucher.
I sondaggi che rilevano periodicamente l’orientamento politico dei cittadini non sono per nulla rassicuranti. Nel 2007 – prima dello scoppio della crisi – il 57% degli europei aveva una visione positiva dell’Unione; oggi la percentuale è quasi dimezzata toccando il punto più basso mai registrato (solo il 30% degli interpellati crede ancora nell’Unione). Con queste premesse non è difficile imaginare che il Parlamento europeo che uscirà dalle prossime elezioni sarà molto diverso da quello attuale, con un ampio schieramento di nazional-populisti che useranno la tribuna di Strasburgo per continuare la loro battaglia.
Evitare la palude. Non è però ragionevole riversare tutte le colpe sui nemici dell’Europa senza chiamare in causa i governi, i Parlamenti nazionali, i partiti, la Commissione e il Parlamento europeo che nulla fanno per evitare che l’Unione venga inghiottita dalla palude nella quale si trova invischiata. Una volta Albert Einstein ha affermato che «follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». È esattamente quel che stanno facendo le classi politiche nazionali le quali, pur ispirate talvolta da un sincero europeismo, non hanno alcuna intenzione di riprendere il cammino dell’unificazione politica auspicata dai padri fondatori e si accontentano di compiere piccoli passi e di apportare all’edificio europeo insignificanti ritocchi che nulla cambiano.
Mancano ormai meno di cento giorni alle elezioni e non è improbabile che nei prossimi mesi il dibattito sull’Unione riprenda quota, che le pagine dei giornali siano piene di previsioni allarmate sulla lenta crescita dell’Europa rispetto ai colossi asiatici, di statistiche sulla mancanza di lavoro per le giovani generazioni, di moniti sul declino dei nostri Paesi travolti dalla globalizzazione, di vane promesse alle quali ci hanno abituato i leader politici. E non mancheranno neppure le ricette per avviare la ripresa: occorre meno rigore, ripeteranno alcuni; è indispensabile una maggiore solidarietà fra i Paesi membri, diranno altri; bisogna promuovere una politica europea degli investimenti e della ricerca, ricorderanno altri ancora. Tutte parole sacrosante, che hanno però il difetto di trascurare le condizioni che rendono possibile la realizzazione di un programma così impegnativo.
La fragilità dell’Unione europea ha una sola causa: l’assenza di unità politica per cui ci ritroviamo con 28 governi i cui interessi solo raramente coincidono. Più di due secoli fa Alexander Hamilton mise in guardia gli americani contro l’illusione di mantenere la pace e la prosperità senza un unico governo. «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo», scrisse lapidariamente nel Federalist. Si potrà obiettare che i Paesi europei non sono tanto “slegati” quanto lo erano le ex colonie inglesi dopo la conquista dell’indipendenza. È vero: se l’Unione europea non si è ancora sgretolata lo si deve al fatto che esiste un interesse comune in grado di opporsi alle spinte centrifughe. È la consapevolezza che senza l’Unione tutti i Paesi europei – tutti, e non solo i più deboli – sono destinati a una inarrestabile decadenza. È questo oscuro timore a indurre i governi a trovare sempre un compromesso prima che la crisi precipiti e non il disegno lungimirante di cui l’Europa avrebbe bisogno. L’idea di unità europea è viva da secoli nel nostro continente. Non è quindi in gioco solo un progetto caduto improvvisamente dal cielo nel secondo dopoguerra bensì il destino di una intera civiltà.