Federico Fubini, la Repubblica 7/2/2014, 7 febbraio 2014
ANCHE I RICCHI EMIGRANO
La settimana scorsa Paolo Barrai è rientrato da Panama in una Milano su cui anni di recessione hanno steso uno strano silenzio. Fresco dell’atmosfera febbrile della capitale sull’istmo, il velo di stanchezza che avvolge gli italiani gli è apparso ancora più evidente. E ha subito annunciato le novità sul suo blog: in primavera organizzerà una doppia conferenza su quelli che definisce «i temi molto caldi» del momento. Tra questi, un esame approfondito delle varie opzioni per abbandonare l’Italia.
Alle conferenze si parlerà, scrive Barrai, di «procedure, costi e delle differenti opportunità offerte dai vari Paesi». Non solo la Svizzera, dove dall’inizio della crisi finanziaria si sono già trasferiti circa quattromila italiani di ceto medio-alto con permessi di soggiorno permanenti con o senza «attività lucrativa». Oggi l’attenzione di Barrai si concentra sempre più anche su luoghi lontani: Dubai, Panama, le isole Canarie o qualcuno dei nuovi e più poveri Paesi dell’Unione europea dove la tassazione sulle persone resta bassa o disfunzionale a qualunque livello di reddito.
Secondo l’Istat 50 mila italiani hanno lasciato il Paese in modo più o meno stabile nel 2011, ma sono balzati improvvisamente a 68 mila nel 2012.
Quelli con i quali lavora Barrai, consigliandoli e aiutandoli a organizzare l’espatrio, rappresentano però una categoria particolare: professionisti in grado di trasferire ovunque nel mondo la propria attività, agiati percettori di rendite finanziarie o immobiliari, pensionati. Famiglie ricche o, più spesso, solo ragionevolmente benestanti. Barrai sostiene di aver già seguito personalmente una trentina di casi del genere fino a destinazione: l’architetto che decide di lavorare davanti al proprio computer dal Golfo persico o da Londra, l’erede di un piccolo tesoro in cerca di affari immobiliari in America Latina, il pensionato milanese che preferisce rimettersi al welfare, all’efficienza amministrativa e alla prevedibilità fiscale del Ticino.
Mentre il terremoto finanziario iniziato nel 2007 viveva la sua metamorfosi in frattura economica, quindi crisi sociale e infine collasso di fiducia verso le istituzioni stesse della Repubblica, Barrai ha via via aggiustato l’attività. L’ha fatta evolvere di anno in anno. Nei primi tempi prima e dopo il crac di Lehman Brothers offriva pareri e consigli ai risparmiatori, anche dal suo blog «Mercato Libero». In alcuni casi era arrivato a organizzare viaggi collettivi in Brasile di italiani impauriti ma in cerca di immobili da comprare in blocco a prezzi scontati. Non sempre è finita bene. Per esempio lo scorso giugno la Consob, che vigila sulla Borsa e la tutela del risparmio, gli ha affibbiato 70 mila euro di multa. Secondo la delibera dell’autorità, Barrai ha promosso un investimento di gruppo nel fotovoltaico in modo avventato e ha garantito un investimento del 5% per tre anni su certi immobili in Brasile. Poi però si è rifiutato di fornire spiegazioni quando il crollo del real brasiliano ha fatto sprofondare l’operazione in rosso e l’investimento sui pannelli solari si è rivelato in salita. Su Facebook esiste anche un profilo collettivo dal nome «truffati da Paolo Barrai»: persone che lo accusano di aver bruciato
i loro risparmi con consigli tragicamente sbagliati e poi di essersi reso irreperibile.
Barrai nega questi ultimi addebiti. E non c’è dubbio che, se non altro, la sua idea di vivere aiutando i benestanti d’Italia a esportare altrove non più i propri prodotti o i propri patriomoni, ma se stessi, sia uno specchio dei tempi. Sempre di più a scommettere sull’espatrio non sono più solo i novemila giovani l’anno che cercano un posto in pizzeria a Londra, un impiego ha hostess con una linea aerea del Golfo o una borsa di studio in un’università americana. Basta estrarre i dati dei consolati d’Italia e dell’Aire, l’associazione degli italiani residenti all’estero, per intuire un altro flusso in uscita parallelo: gli italiani che vivono di rendite o attività che possono svolgere dove vogliono, e non vogliono più farlo qui. Hanno perso fiducia, o pazienza, nella capacità delle istituzioni di reclamare somme congrue in cambio di un grado almeno pari di efficienza.
L’ambasciata di Madrid rivela per esempio che il numeri di italiani residenti alle Canarie sta crescendo in modo esponenziale.
Erano 11.174 nel 2009 ma ne arrivano oltre mille l’anno, in intensità crescenti, e oggi sono 16.716: sono aumentati del 50% in soli cinque anni. E le Canarie, una «comunità autonoma» parte del Regno di Spagna, non vanno famose solo per il mare, la bellezza delle isole vulcaniche e il clima perennemente primaverile. Hanno anche altre due caratteristiche: la disoccupazione è al 34%, dunque non ci si trasferisce laggiù per cercare lavoro, ma vigono un regime di Iva ridotta e una fitta rete di sgravi tributari. Non è un paradiso fiscale, ma si pagano meno tasse che nel resto della Spagna e molto meno che in Italia.
Ancora più esplosiva la dinamica degli afflussi a Panama, che ha appena concluso un accordo con Roma proprio per facilitare i permessi di soggiorno. L’ambasciata d’Italia calcola che il numero di italiani ufficialmente registrato sia più che duplicato da tremila a 6.500 negli ultimi tre anni. Neanche Panama è un paradiso fiscale, ma per i residenti l’aliquota più alta sui redditi delle persone fisiche arriva al 30% e non al 43% come in Italia. Negli ultimi anni poi si stanno affermando anche mete più abbordabili per italiani dai redditi modesti, che però vogliono eludere o fuggire la pressione fiscale o il senso di disfatta sociale che grava sul loro Paese. Per esempio, la stampa bulgara di recente ha iniziato a raccontare la loro comparsa e moltiplicazione a Sofia e dintorni. Non sono numeri importanti, ma a questi tassi di crescita tra poco lo saranno. Gli italiani registrati come residenti in Bulgaria erano 490 fino al 2007, ma da allora crescono ogni anno di oltre il 30% e nel 2013 erano 1104.
A richieste del genere Caterina Corrado-Oliva ormai inizia ad abituarsi. Esperta di diritto tributario internazionale dello studio di Victor Uckmar, nota sempre più clienti che chiedono una residenza all’estero. «Come consulente — dice — per prima cosa avverto sempre che è una scelta di vita». La fuga dei ricchi o anche solo dei piccoli redditieri non è solo il segnale che molti italiani restano inguaribili, indifendibili infedeli nel rapporto con il fisco. Rivela anche che l’elastico delle tasse probabilmente è al punto massimo di tensione: ogni mezza aliquota in più, ormai non corrisponde a maggiori entrate per lo Stato o gli enti locali ma a maggiori uscite di contribuenti dal Paese. E in base alla legge, le finzioni non sono ammesse. Le norme prevedono che si passino almeno 183 giorni l’anno nella residenza estera e lì si trovi anche la famiglia o l’attività della persona che smette di pagare le tasse in Italia.
In questo ovviamente la Svizzera resta il primo territorio a cui gli italiani si rivolgono. Molti tributaristi notano come in certi casi questi contribuenti siano gli stessi che fino a ieri avevano in Svizzera i patrimoni: ora che il governo li pressa a riportare i capitali là dove risiedono, loro portano fuori anche se stessi piuttosto che riportare a casa il denaro lasciandone almeno il 13-14 per cento al fisco. Ma questa è solo una parte della storia. Molti semplicemente scelgono di trasferirsi con il «permesso B», un documento dell’ufficio migrazioni riservato a chi dimostra redditi da almeno 3.100 franchi (2.532 euro) al mese «con o senza attività lucrativa». Preferiscono l’affidabilità, la prevedibilità delle norme e soprattutto del welfare svizzero. Secondo l’ufficio statistico federale elvetico c’è stato un afflusso netto di più di 4.000 italiani con «permesso B» nella Confederazione solo fra il 2010 e il 2012 (oggi i «B» da Sud delle Alpi sono 38.500).
A loro modo queste persone hanno dato vita a un’industria e non solo perché spingono al rialzo i prezzi degli immobili in Ticino. Ci sono anche importatori di ricchi lombardi più discreti e felpati di Paolo Barrai. Fiduciarie come la Profid Sa di Lugano hanno fama di occuparsi di tutto per chi vuole insediarsi: dal permesso, alla casa, alla registrazione dell’auto, all’iscrizione a scuola per i figli, giù giù fino al parrucchiere per la moglie (gli addetti della Profid non hanno risposto alle domande in proposito). Molti dei commercialisti di Lugano trovano così nuove e imprecisate fonti di reddito: Cristina Maderni, presidente dei fiduciari del Ticino, ha rifiutato di prendere domande in proposito. Ed è difficile stabilire le cifre in gioco: anche l’ufficio migrazioni e l’ufficio contribuzioni del Ticino hanno evitato di rispondere. Forse perché gli italiani sono impopolari ma utili. Fanno concorrenza sul costo del lavoro, ma portano risorse. Per il fisco italiano, è un’erosione di tipo nuovo. Non fuggono più i capitali, bensì i flussi di redditi. Anche Paolo Barrai da qualche tempo risiede a Lugano. Si è convinto che il modo migliore per assicurare un reddito in Svizzera per sé e la sua famiglia sia, dice, «aprire un centro uffici a Panama e affittarlo agli italiani».