Stefano Livadiotti, L’Espresso 7/2/2014, 7 febbraio 2014
LADRI DI TASSE
L’Italia conta l’uno per cento della popolazione mondiale, ma realizza il 3 per cento del prodotto interno lordo e detiene il 5,7 per cento della ricchezza del pianeta. Ma nelle loro dichiarazioni dei redditi gli italiani appaiono come un esercito di straccioni, tutti con il Suv miracolosamente vinto alla lotteria del paesello: su 41.320.548 di contribuenti (anno d’imposta 2011) solo lo 0,1 per cento, cioè uno ogni mille, denuncia più di 300 mila euro. Il 62,89 per cento sta sotto i 26 mila. E il 27 per cento, tra detrazioni e deduzioni, non paga nulla. In compenso, abbiamo il salvadanaio che scoppia. In Italia il rapporto tra ricchezza e reddito dichiarato è 8 a uno. Negli Usa è 5,3 a uno. Qualcosa non quadra.
Quel qualcosa si chiama evasione fiscale e rappresenta il vero cancro dell’economia italiana. E questa non è certo una novità. Come non lo è il continuo ping-pong su chi ne sia il responsabile. Il fatto nuovo che oggi emerge con chiarezza, ed è possibile raccontare con nomi e cognomi, è che anno dopo anno ci sono stati uomini politici che si sono preoccupati soprattutto di presentare e far approvare in Parlamento provvedimenti che avevano un’unica finalità: lasciare una sostanziale libertà di evasione ai contribuenti, in particolare ai lavoratori autonomi. Esaminando il lavoro di deputati e senatori è stato anche possibile dimostrare con quali maggioranze, con quali governi, l’evasione fiscale sia aumentata e calata negli ultimi venti anni. Incrociando i dati è possibile pure vedere, elezione per elezione, come hanno votato dal 1994 al 2013 le categorie beneficiate da provvedimenti ad hoc. Insomma, fornire l’identikit del partito degli evasori.
In Italia un dato ufficiale sull’evasione neanche esiste. Ma secondo il britannico Richard Murphy, fondatore di Tax Justice Network e inserito da “International Tax Review” nell’elenco delle 50 persone più influenti al mondo in materia di fisco, i soldi sottratti ogni anno alle casse dello Stato sono 180,2 miliardi di euro. Una cifra al cui confronto il paio di miliardi necessari a far saltare l’Imu sulla casa, dei quali si è ossessivamente parlato per un anno, sono bruscolini. Ma in Italia la lotta all’evasione è solo una farsa. Basta pensare che su quasi 5 milioni di contribuenti sospetti i controlli veri sono appena 200 mila, come ha rilevato la Corte dei Conti. Che i pochi colti con le mani nel sacco possono contare sul vantaggio di una giustizia tributaria ridotta a un colabrodo, dove per il primo grado di giudizio occorrono 903 giorni. Che anche chi viene riconosciuto colpevole alla fine la fa franca: solo l’1,7 per cento delle denunce per reati tributari porta a un arresto. Il risultato è che il fisco si è visto sottrarre in 12 anni 808 miliardi e di questi ne ha recuperati la miseria di 69. E la cifra forse è pure gonfiata. Nel 2011, per esempio, Attilio “Artiglio” Befera, grande capo dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione, si è vantato di aver scoperto e rastrellato 12,7 miliardi. Pinocchio: 5,5 miliardi venivano da dichiarazioni presentate e solo pagate in ritardo. Il recupero vero è stato dunque di soli 7,2 miliardi, pari al 4 per cento dell’evasione stimata da Richard Murphy. Chiunque abbia avuto accesso al bunker sotterraneo della Sogei, la società informatica del fisco italiano collegata con 300 banche dati, sa che il problema non è tecnico. Su questo fronte, per una volta, siamo addirittura all’avanguardia. Il fatto vero è che stanare gli evasori vuol dire perdere il loro voto. E nessun partito ha voglia di suicidarsi politicamente. I lavoratori dipendenti e i pensionati, ai quali le tasse vengono prelevate direttamente in busta paga, non possono gabbare il fisco: e infatti l’82 per cento del gettito viene da loro. I ladri di tasse si annidano dunque altrove: tra i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti e i liberi professionisti. Secondo i calcoli elaborati dalla Banca d’Italia, che ha messo a confronto i redditi dichiarati dagli italiani in un’indagine campionaria anonima e quelli denunciati alla Sogei, tra i lavoratori autonomi il tasso di evasione è pari al 56,3 per cento. Ma quella che i politologi chiamano piccola borghesia urbana vale, mal contati, tra i 10 e i 12 milioni di voti. Uno zoccolo duro che nessun partito può permettersi di perdere, in un Paese dove nel 2006 Romano Prodi ha vinto le elezioni con un margine di 24 mila preferenze. E dove, come scrive nel suo “L’evasione fiscale” il professor Alessandro Santoro, l’argomento fisco risulta determinante ai fini del voto.
E infatti la lobby che difende in parlamento chi froda il fisco è trasversale. Lo dimostra un dato citato da Mario Draghi quando era alla guida della Banca d’Italia: in 34 anni, tra il 1970 e il 2004, sono stati varati 32 condoni. Il grafico pubblicato in queste pagine mostra la differenza tra la pressione fiscale apparente e quella effettiva (che grava su chi fa il proprio dovere): la si può considerare un misuratore grezzo dell’evasione fiscale, perché più cresce il sommerso (l’insieme delle attività economiche che sfugge alle statistiche) e più si allarga la forbice. L’elaborazione del professor Mauro Gallegati, docente di Macroeconomia all’Università delle Marche e autore con il Nobel Joseph Stiglitz di un paper sulla disuguaglianza, dimostra che dalla discesa in campo di Berlusconi, nel 1994, con qualche rara eccezione, l’evasione è sempre salita con i governi di centrodestra e scesa quando a palazzo Chigi c’era il centrosinistra.
Le prove che Berlusconi & Co sono quelli che più hanno lavorato per lisciare il pelo ai contribuenti allergici alle tasse è scritta a chiare lettere negli atti parlamentari. Un esempio per tutti è l’incredibile balletto sulla soglia all’utilizzo del denaro contante, una partita decisiva dal momento che il sommerso vive di nero e il nero si nutre di cash. Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni, Prodi ha abbassato il tetto da 12.500 a 5mila euro. E stabilito, con il decreto Bersani-Visco, un décalage: la soglia sarebbe dovuta scendere a mille euro nel luglio 2007, a 500 un anno dopo e nell’estate 2009 addirittura a 100 euro per i professionisti (come in Germania avviene già oggi). Il piano è però rimasto sulla carta. Perché a palazzo Chigi è arrivato Berlusconi. E il suo superministro per l’Economia, Giulio Tremonti, lesto, nel giugno 2008 ha ripristinato il limite dei 12.500 euro (salvo poi essere costretto dalla crisi della finanza pubblica a dare, suo malgrado, un giro di vite nella lotta all’evasione, riportandolo a 5mila euro nel maggio del 2010 e poi a 2.500 nell’agosto del 2011). Quindi il Cavaliere ha dovuto passare la mano a Mario Monti, che nel dicembre 2011 ha stabilito l’attuale quota di mille euro. I berlusconiani non hanno però mollato l’osso. Nell’estate scorsa due parlamentari dell’allora Pdl (Cinzia Bonfrisco e Antonio D’Alì) hanno presentato un emendamento al decreto cosiddetto “del fare” per rialzare il tetto al contante a 3 mila euro, ma sono stati stoppati dal governo di Enrico Letta. E alla fine dello scorso ottobre, quando il titolare dell’Economia Fabrizio Saccomanni si era espresso a favore di un’ulteriore riduzione del tetto all’uso del contante era insorto l’allora segretario del Pdl (nonché vicepremier), Angelino Alfano: «Noi la pensiamo all’opposto », aveva prontamente twittato.
Un altro esempio di cadeau agli evasori griffato Berlusconi è il maxi condono 2002-2004, che ha consentito di sanare tutto il sanabile. A prezzi stracciati. E offrendo una gamma di soluzioni talmente ampia da andare incontro alle esigenze di chiunque avesse fatto il furbo con il fisco e volesse mettersi al riparo da brutte sor prese con una manciata di spiccioli. Ora: ogni condono è un regalo per i ladri di tasse, un’insopportabile beffa per tutti i contribuenti onesti e una resa per lo Stato. Ma quello del 2002-2004 è andato davvero oltre ogni limite di decenza. La legge non vincolava il perfezionamento del condono e quindi la concessione dei benefici previsti, al pagamento immediato dell’intera somma prevista. Chi ha scritto l’articolato ha nascosto tra le righe un trucchetto semplice, ma molto efficace (per gli evasori). Stabilendo una soglia di 3mila euro per le persone fisiche e di 6mila per società ed enti da pagare contestualmente alla dichiarazione che dava definitivo accesso al condono. In base alla legge, la parte eccedente poteva essere versata in due comode rate. Che molti si sono poi dimenticati di spedire all’indirizzo di Befera. Così, dieci anni dopo, all’appello mancano 4 miliardi. Regalati ai furbetti della dichiarazione.
Un altro esempio significativo dell’impegno con cui Berlusconi ha voluto mandare segnali di vicinanza al popolo delle partite Iva, da sempre suo bacino elettorale, risale al 2008. Due anni prima Prodi aveva introdotto l’obbligo per i professionisti di far affluire tutte le somme riscosse con la loro attività in uno o più conti dedicati, dai quali prelevare i denari necessari a coprire le spese e fissato un tetto di cento euro ai pagamenti in contanti. Nei primi cento giorni del suo quarto governo, Berlusconi, mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale, ha cancellato tutto. Risultato: nel 2006, con un prodotto interno lordo in crescita del 3,94 per cento, l’imposta sul reddito dichiarato dai lavoratori autonomi era salita del 12,15. Nel 2008, dopo l’abrogazione della norma, con un Pil a più 1,35 per cento, l’imposta sul reddito dichiarato dagli autonomi è franata del 2,97 per cento.
Se Berlusconi & Co. si sono dati da fare più di tutti per conquistare i consensi del popolo delle partite Iva, anche gli altri partiti sono stati ben attenti a tenersi defilati dalla delicata questione della guerra (si fa per dire) all’evasione. Lo hanno dimostrato nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del febbraio 2013, quando Befera ha annunciato l’arrivo del nuovo redditometro, lo strumento che sarebbe dovuto servire per mettere a confronto entrate dichiarate e uscite dei contribuenti, allo scopo di individuare quelli più sospetti e quindi meritevoli di un approfondimento da parte degli 007 del fisco. Il tentennante Mario Monti, all’epoca premier alla guida dell’ormai famosa “strana maggioranza”, ha subito parlato di bomba a orologeria piazzata sotto palazzo Chigi dal suo predecessore, Berlusconi. Pierluigi Bersani, allora segretario del Pd, si è affannato a negare ogni paternità del nuovo strumento di indagine fiscale, preoccupatissimo di non avvalorare lo stereotipo della sinistra sempre pronta a mungere i contribuenti pur di alimentare i costi del welfare. Per non parlare di Beppe Grillo che, puntando a un massiccio travaso di voti dalla tradizionale base elettorale dell’allora Pdl, ha colto la palla al balzo, incitando le sue folle a dare direttamente fuoco a Equitalia. Né troppo diversamente si è comportato più tardi Letta quando ha finito per far saltare la famigerata Imu.
La contesa sul voto del popolo delle partite Iva si è fatta sempre più aspra a partire dal 1994, quando Tangentopoli ha mandato in frantumi il vecchio quadro politico, aprendo spazi che sono stati subito colmati. L’effetto Mani pulite si è andato in qualche modo a sommare al calo, già in atto, della presa delle ideologie e del collante religioso. E il combinato disposto di questi fattori ha avuto un risultato a sorpresa: le ali estreme della società, l’alta borghesia e la classe operaia, si sono disallineate dai loro tradizionali schieramenti di riferimento, rendendo ballerini milioni di voti. La piccola borghesia urbana è diventata invece più coesa, accrescendo così il proprio peso relativo e, come dimostrano le tabelle pubblicate in queste pagine, puntando tutto su Berlusconi, consentendogli così di vincere le elezioni o di perderle solo di misura. Fino al 2013, quando, sentendosi tradita dal Cavaliere per l’appoggio fornito alla politica di austerità di Monti, basata per due terzi su inasprimenti fiscali, è passata armi e bagagli con il comico populista Grillo.«Il fisco è la questione topica di Berlusconi, dice Ilvo Diamanti, professore di Scienza politica a Urbino, «ed è stata ereditata da Grillo perché percepito come il principale oppositore dei poteri centrali dello Stato. Per la stessa ragione Grillo ha intercettato il voto di tutte le categorie produttive».
I partiti se le sono dunque date di santa ragione per favorire i propri elettorati. Nello stesso tempo, però, come racconta l’articolo nelle pagine seguenti, tutti insieme appassionatamente hanno lavorato per garantire ai loro parlamentari un trattamento fiscale straordinario. Finora la rabbia degli elettori si era diretta verso gli stipendi e le pensioni degli onorevoli. Ma il privilegio sulle tasse è ancora più odioso. Poi si lamentano dell’antipolitica.