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 2014  febbraio 06 Giovedì calendario

LUNGA VITA GRAZIE AL LIMITE – [DA SERGE LATOUCHE UN’ALTRA PAROLA CHIAVE PER LA SUA TEORIA]


INTERPRETE DEI MAESTRI «LIBERTARI» DEL SECONDO NOVECENTO COME IVANILLICH, ANDRÉ GORZ, CORNELIUS CASTORIADIS E JACQUES ELLUL, critico radicale dell’«impostura dello sviluppo», Serge Latouche è il principale sostenitore della decrescita. Usato come ariete concettuale per demolire il muro di certezze che protegge la fede nell’economia, il rituale del consumo e il culto del denaro, quello di decrescita è un termine che anche Latouche, professore emerito di Economia all’Università di Parigi-sud, sembra ormai voler abbandonare. Sostituito con «abbondanza frugale», rimane comunque fondamentale per comprendere l’elemento centrale della sua proposta teorica e politica: il limite. Un limite che va opposto alla hybris consumistica, al mito dell’abbondanza materiale, alla tecnica prometeica, e che deve orientare la decolonizzazione di un immaginario viziato da economicismo, tecnicismo ed espansionismo. La decolonizzazione dell’immaginario, spiega nel suo ultimo libro tradotto in italiano, Incontri di un «obiettore di crescita» (trad. di Stefano Salpietro, pp. 144, euro 12, Jaca Book), «è un processo di terapia collettiva lenta e graduale». Abbiamo intervistato Latouche alla vigilia dell’incontro veneziano su «Cambiare strada. Per una riconversione sociale ed ecologica».
Professor Latouche, lei ha scritto che tutto il suo lavoro mira a contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione insieme teorica, storica e semantica. La crisi che stiamo attraversando può favorire quell’«uscita dall’economia» da lei auspicata?
«La crisi non solo favorisce l’uscita dall’economia, ma la rende l’unica vera soluzione a lungo termine. Stiamo vivendo una crisi che non è solo economico-finanziaria, ma ecologica, sociale, culturale. È la crisi della stessa civiltà occidentale. Siamo di fronte all’«ora della verità» per il sistema economico capitalista mondializzato. Non possiamo prevedere l’apice della crisi, ma sappiamo che se restassimo sulla strada percorsa finora non andremmo oltre il 2030, come d’altronde prevedono il quinto rapporto dell’Ipcc (il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, ndr) e il terzo rapporto del Club di Roma.
In Incontri di un «obiettore di crescita» lei ricorda che nella medicina ippocratica la «krisis» è la svolta decisiva nell’evoluzione della malattia. Eppure, nelle terapie proposte non sembra esserci una svolta simile. Come si fa a evitare ciò che definisce come «falsa alternativa» tra austerità deflazionista e rilancio scriteriato dei consumi?
«Lo si può fare con la decrescita, costruendo un’alternativa che equivale ad uscire dalla società dei consumi, dal capitalismo e da un paradigma forse ancora più vecchio del capitalismo, quello dell’illimitatezza. Il paradigma della dismisura ha fondato l’Occidente: tutte le civiltà hanno cercato di limitare la dismisura, di controllarla (senza riuscirci, ma provandoci), mentre quella occidentale è l’unica ad aver incoraggiato la dismisura. Anche oggi che sappiamo che il pianeta è allo stremo facciamo di tutto per continuare a crescere, sfruttando perfino le ultime gocce di petrolio».
Al paradigma dell’illimitatezza lei contrappone il paradigma del limite, a cui ha dedicato anche un libro, «Limite» e la proposta della decrescita...
«Quella del limite è una questione molto concreta, legata anche alle questioni di cui parleremo a Venezia, come quella delle grandi navi. Dopo l’incidente dell’isola del Giglio, si è capito bene come sia folle e pericoloso costruire e far navigare delle navi mastodontiche, con 5.000 passeggeri, vere e proprie città ambulanti. Eppure continuiamo a produrle. In Francia in questi giorni c’è un clima trionfale perché una grande azienda di Saint-Nazaire (la Chantiers de l’Atlantique, ndr) si è aggiudicata la commessa per una nave di dimensioni enormi. Le navi sempre più grandi, come i grattacieli sempre più alti, esemplificano bene la tendenza dell’uomo occidentale ad andare sempre oltre, spinto dalla ricerca del profitto e dall’ideologia del “sempre di più”».
Il sociologo e ambientalista Wolfgang Sachs adopera spesso una metafora per indicare la necessità del limite e del passaggio all’economia post-fossile: dal modello della petroliera a quello della barca a vela...
«È una metafora che funziona. Ci dice che bisogna programmare una riconversione ecologica, soprattutto per il settore energetico. Probabilmente abbiamo già superato il picco di Hubbert, quel punto della produzione massima del petrolio dopo il quale la produzione non può che diminuire. La strada più ragionevole è risparmiare energia, favorire la riconversione ecologica, sviluppare le energie rinnovabili. Invece si fa il contrario: in questi giorni in Francia c’è un acceso dibattito perché un ministro vuole autorizzare – contro la legge – l’estrazione del gas di scisto, una tecnica altamente inquinante».
Nel 1990, nella sua «Lettera a San Cristoforo», Alexander – pioniere dell’ecologismo politico in Itala – scriveva che «il cuore della traversata che ci sta davanti o probabilmente il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse o già troppo”». Si direbbe un precursore della decrescita...
«Langer aveva identificato benissimo i problemi da affrontare e le vie per risolverli. Quel che è incredibile è che il suo pensiero sia stato totalmente dimenticato, perfino in Italia, dove in pochi oggi parlano ancora di lui. Anche per questo mi sono impegnato nella direzione di una collana editoriale per Jaca Book dedicata ai precursori della decrescita. Ci saranno volumi su Enrico Berlinguer, che parlava di austerità, su Alexander Langer e su molto altro».
Di limiti però nessuno vuol sentir parlare, neanche tra gli economisti meno ortodossi. Lei ha definito Joseph Stiglitz un’anima bella, sostenendo che la vecchia ricetta keynesiana del rilancio del consumi e degli investimenti non è auspicabile. Perché?
«In Francia i “produttivisti” più accaniti sono di sinistra. Vogliono rilanciare a tutti i costi la crescita. A destra si invoca la crescita speculativa, a sinistra quella più “industriale”, ma sempre di crescita si tratta. La terapia keynesiana, all’origine dei “trenta gloriosi”, funzionava bene negli anni ’60, oggi non più, anche perché appena c’è un minimo di ripresa i prezzi delle materie prime salgono e le imprese rimangono strangolate. Non nego che si debba uscire dalla crisi, puntando alla piena occupazione, ma non lo si può fare con l’illusione della crescita infinita».
A sinistra lo «sviluppismo» ha fatto pendant con l’idea che la crescita economica portasse di per sé maggiore giustizia sociale, che potesse risolvere le disuguaglianze. Un’altra idea da archiviare?
«È un’illusione che va avanti da molto tempo. Eppure già il giovane Marx riteneva che si producesse abbastanza, perlomeno nei paesi occidentali, e che il problema fosse di condividere meglio, diversamente. Per evitare le difficoltà sociali della ripartizione, si è però preferito fare una sorta di compromesso storico con i capitalisti, per produrre di più. Alla base, c’è il mito della torta: si pensava che ingrandirla avrebbe garantito a tutti delle fette sufficientemente grandi. Ma mentre la torta si ingrandiva, diventava sempre più inquinata. Oggi è avvelenata».
Uscire dall’economia per lei significa criticare la razionalità economica, in favore di quella ragionevolezza mediterranea di cui paria ne «Il mondo ridotto a mercato» e poi ne «La Sfida di Minerva». Di cosa si tratta?
«Sin dall’inizio, da Adam Smith e David Ricardo, gli economisti hanno costruito una macchina economica sull’immagine della fisica newtoniana, che è razionale, matematica, meccanica, reversibile. La vita però non si svolge nella sfera matematica, e obbedisce alle leggi della termodinamica, in particolare a quella dell’entropia: la storia non è reversibile, la società non è una macchina di natura meccanica. Ecco perché è necessario recuperare ciò che i greci chiamavano phronesis, un concetto che Cicerone traduce come prudenza e che a me piace definire ragionevolezza».
La razionalità economica ha modificato il modo in cui intendiamo la natura, facendone un «dato ostile di cui bisogna appropriarsi» e sui cui esercitare le armi «della tecno-scienza prometeica, cieca e senza anima». Rispetto alla «hybris» tecnoscientifica lei suggerisce di iniziare il «tecnodigiuno» di cui parlava Ivan Illich. Come farlo?
«Il paradigma prometeico della razionalità cartesiana e baconiana sfrutta e distrugge la natura, e per definizione non ha limiti. Il suo opposto è il “tecnodigiuno”, difficile da esercitare. Ognuno può provarci per conto suo, ma al livello sistemico lo faremo soltanto per necessità, quando le risorse saranno terminate. Intanto, ci vuole un cambiamento radicale dell’immaginario, che è già iniziato, come dimostrano le esperienze di alcuni paesi dell’America Latina, con il recupero della tradizione amerindiana. Tutte le civiltà hanno un tesoro di saggezza da recuperare, costruito intorno al limite. È un tesoro che va recuperato».