varie, 6 febbraio 2014
Philip Seymour Hoffman, 46 anni, è stato trovato morto domenica 2 febbraio nella sua casa al quarto piano di Bethune Street, nel West Village di New York
Philip Seymour Hoffman, 46 anni, è stato trovato morto domenica 2 febbraio nella sua casa al quarto piano di Bethune Street, nel West Village di New York. Disteso sul pavimento del bagno, in mutande, un ago ancora infilato nel braccio. L’ipotesi più probabile è che si sia trattato di overdose di eroina. Considerato unanimemente dalla critica uno dei migliori attori della sua generazione, Philip Seymour Hoffman aveva vinto un premio Oscar come attore protagonista, era stato nominato tre volte come miglior attore non protagonista e aveva ricevuto moltissimi altri riconoscimenti. «Quasi condannato a interpretare i ruoli più difficili, personaggi tormentati o controversi: basso, tarchiato e sovrappeso, non aveva il fisico del super-eroe alla Tom Cruise né il sex-appeal di Brad Pitt, ma era l’attore ideale per interpretare psicologie complesse, un nuovo Dustin Hoffman (cognome identico, nessuna parentela)» (Federico Rampini) [Federico Rampini, la Repubblica 3/2]. Da alcuni mesi, si era separato dalla sua compagna storica, la costumista Mimi O’Donnell. I due stavano insieme da 14 anni e hanno tre figli piccoli: Cooper, 10 anni, Tallulah, 7 e Willa, 5. Da ottobre aveva affittato l’appartamento da 10.000 dollari al mese in cui è stato trovato morto. A trovare il cadavere e chiamare il 911 è stato lo sceneggiatore e David Bar Katz, grande amico di Hoffman. Mercoledì scorso il National Enquirer (tabloid americano in vendita nei supermercati) ha pubblicato un’intervista in cui Katz afferma di avere una relazione gay con l’attore da anni. Katz ha immediatamente smentito l’intervista e sporto querela [Alberto Flore D’Arcais, la Repubblica 6/2]. La polizia ha trovato nella casa decine di bustine contenenti eroina: su alcune era scritto “asso di spade”, su altre “asso di cuori”, sigle usate dagli spacciatori per indicare la brown sugar, un tipo di droga tagliata con il Fentanil, oppiaceo solitamente usato per curare il cancro, che ha la capacità di aumentare in modo straordinario gli effetti dello stupefacente [Paolo Mastrolilli, La Stampa 4/2]. Altre cose trovate in casa di Hoffman: venti siringhe usate in un bicchiere da caffè di Starbucks, parecchi antidolorifici, diverse scatole di Vynase (usato in genere per curare il deficit di attenzione), antidepressivi eccetera [Massimo Vincenzi, la Repubblica 4/2]. Ci sarebbe anche un video che ritrae Hoffman sabato sera, intorno alle otto, mentre preleva soldi dal bancomat e poi si avvicina a due ragazzi con borse a tracolla, prima di sparire dall’inquadratura. Mercoeldì la polizia ha arrestato quattro spacciatori, tre uomini e una donna (tra loro ci sarebbe anche un musicista che suonava con David Bowie) [Alberto Flores D’Arcais, la Repubblica 6/2]. «Se n’è andato in un modo maledetto che sembra provenire da epoche diverse, in cui il rapporto tra talento e sregolatezza andava – passateci l’espressione – molto più di moda. Mai avremmo pensato di accostare Hoffman ad altri giovani chiamati troppo presto al loro destino, da Jim Morrison a River Phoenix» (Alberto Crespi) [Alberto Crespi, l’Unità 3/2]. C’è una foto pubblicata dal Daily dove, durante una recente asta di beneficenza, ha la stessa espressione in bilico tra lo smarrito e il malinconico di John Belushi, un altro grande ucciso dalla droga. [Massimo Vincenzi, la Repubblica 4/2]. Hoffman aveva una frequentazione con le droghe che risale ai tempi del college. «Negli ultimi anni aveva a più riprese assicurato che, grazie a percorsi di riabilitazione, ne era uscito. Nel gennaio 2013 ricordava il passato così: “Sono cambiato, e poi non c’è gusto ad essere moderati, o tutto o niente”. Era una bugia, per gli altri, ma forse anche per se stesso» [Massimo Franco, Corriere della Sera 3/2] Nato il 23 luglio 1967 a Fairport, nello Stato di New York, Philip Seymour Hoffman era figlio di un manager e di un magistrato (la madre, in gioventù attivista per i diritti civili, ora giudice nella contea di Rochester. La famiglia aveva origini tedesche, inglesi e olandesi. [Gloria Satta, Il Messaggero 3/2]. Faceva teatro e cinema da una vita: aveva studiato alla Tisch School of the Arts a New York e aveva cominciato già da ventenne a ottenere piccole parti. E leggeva moltissimo, come aveva raccontato in una lunga intervista del 2004 con The Believer: i corridoi di casa sua sono pieni di libri “e come moltissimi lettori, ha la tendenza a non finire i libri che inizia, distratto dal lavoro o più spesso da altri libri”. Aveva una voce cavernosa da ex fumatore e una grossa risata, e ha sempre avuto una corporatura robusta – “noi Hoffman siamo fatti così”, aveva detto a Esquire nel 2012. [Il Post 3/2] «La sua forza erano gli uomini disperati e mostruosi di cui aveva succhiato il nettare: vedi il grande Truman Capote nel film che rispecchia la sua vita movimentata al momento dell’inchiesta su A sangue freddo, quando diventa amico di uno degli assassini. Non si poteva non dargli l’Oscar, che infatti vinse nel 2006, ma colleziona altre tre meritate nomination per l’agente Cia di La guerra di Charlie Wilson, Il dubbio e The Master» (Maurizio Porro) [Maurizio Porro, Corriere della Sera 3/2]. «Quando vinse l’Oscar si presentò sul palco in camicia nera e cravatta bianca, con quei capelli chiari da tedesco, la bocca perfetta, il colorito rossastro, il fisico pesante. Un Orson Welles biondo, disperato, pericoloso. Fece un breve discorso, tu stavi a guardarlo sudando con lui, lo concluse dicendo quando era orgoglioso di sua madre, che aveva saputo crescere da sola quattro figli. E anche tu ti sentivi misteriosamente orgoglioso di lui, come se fosse la parte più contorta e dolorosa di te che stavano premiando» (Daria Bignardi) [Daria Bignardi, Vanity Fair 5/2]. In Magnolia di Paul Thomas Anderson, fa l’infermiere che si prende cura di un malatissimo Jason Robards. «Con una telefonata, cerca di rintracciare Tom Cruise, figlio del moribondo (uno che per regolare i conti con il genitore – non si vedono da anni – tiene seminari per sfigati al grido di “Seduci e distruggi”). Gli fanno notare: “Un padre in punto di morte che vuol rivedere il figlio e l’infermiere che cerca di ristabilire un contatto? Ma sono cose che succedono solo nei film”. La risposta è di pura saggezza, personale e cinematografica: “Queste cose le mettono nei film perché succedono nella vita”» (Mariarosa Mancuso) [Mariarosa Mancuso, Il Foglio 4/2]. Al New York Times disse: «Recitare è una tortura perché sai che è una bellissima cosa. Desiderarla è facile. Cercare di essere grande, questa è la tortura» [Gloria Satta, Il Messaggero 3/2]. «Era ancora ben lontano da quel Viale del Tramonto che ha visto precipitare tante vite di uomini e di donne nel mondo di Tinsel Town, della città spietata di latta e di cartone. Aveva lavorato molto e aveva offerte, nel cinema come in teatro, ma nessuna statuetta, nessun contratto, nessun plauso di critica e di pubblico possono mai colmare quella voragine di insicurezza che sta sotto la crosta sottile della fama e li consuma. “Hollywood — diceva una delle sue vittime più luminose, Marilyn Monroe — è la città dove ti danno cinquantamila dollari per un tuo bacio e cinquanta centesimi per la tua anima”» (Vittorio Zucconi). [Vittorio Zucconi, la Repubblica 3/2]. La sua ultima apparizione pubblica è stata a gennaio, al Sundance Film Festival, dove promuoveva i due film God’s Pocket e A Most Wanted Man. Sul red carpet indossava abiti un po’ larghi, non si era fatto la barba, aveva occhi lacrimosi ed era pallido. In quell’occasione ha declinato una serie di interviste, facendo dire al suo agente che non se la sentiva [Daily Mail 3/2]. A Esquire, nel 2012, aveva spiegato come si considerasse fortunato per il fatto che per la gran parte della sua carriera non fosse stato un attore “da copertina”, popolarissimo come altri grandi attori americani: «Ci penso spesso. Credo che oggi sia meno vero di un tempo, più invecchio e più perdo il mio “anonimato”. Penso che sia perché oggi per le persone è molto più facile vedere tutto. Negli ultimi cinque anni le nostre foto – le mie, le tue, quelle di tutti – sono finite ovunque. Non è che le persone guardano più film, è che le immagini sono ovunque. Per gli attori più giovani sarà sempre più difficile mantenere un profilo basso. E questo anzi non vale solo per gli attori, vale per tutti» [Il Post 3/2]