Fabrizio Goria, Linkiesta 4/2/2014, 4 febbraio 2014
INTESA
& UNICREDIT, ECCO COME SARA’ LA BAD BANK ITALIANA -
Sono tanti, brutti, sporchi e tossici. Sono i Non-performing loans (crediti dubbi, o Npl) in pancia alle banche italiane. E dopo Intesa Sanpaolo, anche UniCredit sarebbe sul punto di creare una bad bank interna, come spiegano diverse fonti a Linkiesta. Il tutto per isolare e liberarsi di parte degli oltre 250 miliardi di euro di Npl che pesano sul sistema bancario italiano. E nel caso non si riuscisse per mano del mercato, ci potrà essere un supporto della Cassa depositi e prestiti.
55 miliardi di euro per Intesa Sanpaolo, cifra ancora non definita per UniCredit. Eppure, come spiegano a Linkiesta tre diverse fonti, i numeri non sono un problema. «Stiamo ancora finendo diverse operazioni di cessione dei crediti deteriorati, come fatto con AnaCap, ma la creazione di una bad bank interna è funzionale alla fine del credit crunch», spiega una fonte finanziaria. L’obiettivo è duplice. Da un lato si vuole cedere il più possibile sul mercato - attualmente sono stati oggetto di cessione circa 2 miliardi di euro di Npl - e dall’altro si vogliono alleggerire i portafogli principali, cioè Held-to-maturity (Htm), Available-for-sale (Afs), Held-for-trading (Hft). «La situazione si è resa necessaria già nei mesi scorsi, data la dinamica di deterioramento dei crediti», spiegano fonti interne a UniCredit. La bad bank potrebbe essere la naturale prosecuzione della via intrapresa negli ultimi anni dalla banca. Prima con il portafoglio Alfa, quello dedicato ai crediti più difficili. Poi con il portafoglio gestito da UniCredit Credit Management Bank, la branca dedicata ai crediti dubbi, è di circa 40 miliardi di euro, a cui però si devono aggiungere altri 10 miliardi di asset in potenziale difficoltà. Più tutti gli altri che potrebbero diventare sofferenze o crediti dubbi nei prossimi mesi. «È vero che c’è già la divisione dedicata, ma è meglio isolare totalmente le criticità», continua un’altra fonte, questa volta interna, che ricorda come l’accelerazione finale per la nascita della bad bank interna ci sia stata a dicembre. Il motivo è un’armonizzazione nella gestione dei Npl, più vicina ai modelli europei che nasceranno in ottica di unione bancaria, in modo da non suscitare malumori né in Commissione Ue né in Banca centrale europea (Bce). «Stavamo attendendo le mosse della Bce e della European banking authority, poi abbiamo agito. E chiaramente non saremo gli unici né in Italia né nell’eurozona», conclude. Contattata da Linkiesta, la banca non ha commentato né fornito ulteriori dettagli. Inoltre, come ricorda Alberto Gallo di Royal Bank of Scotland, i Npl in pancia a Intesa Sanpaolo e UniCredit rappresentano solo il 28% del totale di quelli presenti nel sistema bancario italiano. Facile quindi che anche altri soggetti facciano lo stesso prima della fine dell’anno.
Le due principali banche italiane stanno quindi mettendo mano ai propri bilanci per ripulirli. E lo stanno facendo velocemente. Merito anche dell’Asset quality review della Banca centrale europea, la due diligence che guarderà dentro i portafogli degli istituti di credito della zona euro. Basata sui bilanci 2013, l’Aqr servirà a quantificare tutte le posizioni di rischio, sia a livello di prezzo sia a livello di liquidità. Pulizie di primavera, in sostanza. Ma come sarà gestita la bad bank? Chi tenterà di farli uscire dallo stato di sofferenza? Si arriverà a una risoluzione oppure no? Tutte domande per ora senza risposta. Certo è che la creazione di una bad bank rientra nei meccanismi di risoluzione bancaria dettati dal Single resolution mechanism (Srm) a livello europeo.
Ciò che potrebbero fare Intesa Sanpaolo e UniCredit sarà molto simile a ciò fatto l’anno scorso da Royal Bank of Scotland, che ha isolato circa 38 miliardi di sterline. «Non sarà una bad bank statale», precisano fonti interne di UniCredit. Quindi, niente di simile alla National Asset Management Agency (Nama) irlandese, che fra il 2009 e gli anni successivi ha immunizzato le banche irlandesi dagli asset tossici, prevalentemente immobiliari. E non sarà nemmeno come il Fondo de Reestructuración Ordenada Bancaria (Frob), creato dalla Spagna nel 2008. Tuttavia, c’è una possibilità supplementare, nella quale lo Stato potrebbe essere ben presente.
Nel caso la ristrutturazione de facto del sistema bancario italiano non proceda in modo veloce e profittevole secondo le normali regole di mercato, potrà intervenire anche la Cassa depositi e prestiti (Cdp), della quale il Tesoro è il primo azionista. Come? Lo ha definito la Legge di Stabilità 2014: «La Cassa depositi e prestiti S.p.A. può acquistare titoli emessi ai sensi della legge 30 aprile 1999, n. 130, nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto crediti verso piccole e medie imprese al fine di accrescere il volume del credito alle piccole e medie imprese». In pratica, può comprare asset deteriorati, impacchettati dalle banche e ricollocati sul mercato. E questi acquisti, come ricorda la Legge di Stabilità, «possono essere garantiti dallo Stato secondo criteri e modalità stabiliti con decreto di natura non regolamentare del ministro dell’Economia e delle finanze». Una bad bank di un’istituto di credito italiano, quindi, potrebbe vendere alla Cdp gli asset deteriorati, e successivamente cartolarizzati, in modo da ottenere risorse per ripristinare i canali del credito verso le imprese. Un bailout mascherato? Forse.
A differenza di Nama e Frob, che avevano uno scopo preciso, la Cdp potrebbe ritrovarsi a essere la spugna con la quale le banche si puliscono i bilanci e magari ci guadagnano anche qualcosa. Tutto dipende, nel caso di intervento della Cdp, dal prezzo al quale saranno ceduti i crediti. Un prezzo che, al fine di migliorare la posizione contabile delle banche, potrebbe essere superiore a quello di libro o di mercato. Allo stesso modo, il corretto funzionamento della bad bank potrebbe derivare anche dal prezzo in cui questi asset deteriorati saranno allocati dentro la nuova entità. Specie in ottica di Asset quality review.
Con la separazione delle attività più illiquide e rischiose, le banche italiane stanno cercando di ritrovare la calma dopo le tempeste finanziarie degli ultimi anni. Tramite le due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-term refinancing operation, o Ltro) lanciate dalla Bce tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012, gli istituti nazionali hanno sostenuto il Tesoro nelle aste dei titoli di Stato, imbottendosi di bond governativi e autarchizzando il mercato obbligazionario italiano. Allo stesso tempo, il deterioramento dei crediti erogati si è amplificato e ha raggiunto i livelli record degli ultimi mesi. Ora il nuovo strumento per ripulire i bilanci delle banche italiane si chiama bad bank. Ma presto potrebbe chiamarsi anche Cdp.