Roberto Nepoti, la Repubblica 6/2/2014, 6 febbraio 2014
ROBERT REDFORD NAVIGATORE SOLITARIO IN SILENZIOSA TEMPESTA
Un navigatore solitario veleggia nell’Oceano Indiano, tra Indonesia e Madagascar. Non ci è dato saperne il nome; quanto ai particolari della sua vita e del suo carattere, possiamo appena intuirli: è sposato (porta la fede al dito), benestante (si permette il “Virginia Jean”, un elegante yacht di 14 metri), presumibilmente ha una famiglia, cui indirizza in voice-over un’accorata lettera nella scena iniziale. Rispetto alla quale il film fa poi un passo indietro di otto giorni, per narrarci come la barca dell’innominato velista sia stata speronata da un container alla deriva, restandone gravemente danneggiata. Lo skipper tenta di ripararla; ma, col sistema elettrico di bordo e la cabina inondata, è preda delle tempeste, mentre la ricerca di soccorsi resta infruttuosa. A un certo punto l’uomo è costretto ad abbandonare l’imbarcazione, che s’inabissa, e continua a navigare su un canotto di salvataggio.
Con l’aiuto di un vecchio sestante e di una guida nautica, s’ingegna a trovare la via delle rotte commerciali; le navi che incrocia, però, non lo vedono. Ai limiti della resistenza, privo di viveri e acqua, circondato dagli squali che nuotano intorno al suo canotto, il naufrago sembra ormai condannato. In un ultimo, disperato, tentativo di farsi individuare, finisce per dare alle fiamme il natante... e qui ci fermiamo, perché rivelare il finale sarebbe cosa di pessimo gusto nei confronti dello spettatore che, per oltre cento minuti, è stato partecipe dell’odissea tra le acque.
Se il genere “survival” non manca di esempi anche recenti nel cinema americano (vedi Gravity, con lo spazio al posto dell’oceano), il film scritto e diretto da J.C. Chandor ne rappresenta l’esempio quintessenziale. Intanto è così laconico (le uniche parole che udiamo, oltre alla citata lettera iniziale, sono i vani appelli alla radio del protagonista e alcune imprecazioni contro la malasorte) da far apparire verbosi precedenti come Vita di Pi o Cast Away, dove il naufrago Tom Hanks, almeno, conversava con una palla. Poi, lo schermo è occupato dall’inizio alla fine da un unico personaggio, sempre al centro della scena, di cui il pubblico condivide le emozioni e le paure.
Per rendere accettabile un film del genere ci vuole, soprattutto, un interprete convincente; e non si vede chi avrebbe potuto esserlo più di Robert Redford, impegnato qui in un autentico testamento cinematografico (per la cronaca, il non più giovane Bob ha girato in prima persona la maggior parte delle scene pericolose). Se il navigatore solitario non ha un nome, in fondo, è perché coincide con lo stesso attore: un Robert Redford immaginato in situazione di estremo pericolo, ma nondimeno sensibile ed educato (si fa la barba anche quando è solo in mezzo al mare), ricco e virile, capace di grande autocontrollo. Da sempre ottimo esponente dell’underplaying, più incline ad affidarsi ai gesti (guardarlo qui mentre cerca di riparare la falla con pennellate di resina, o quando ricava acqua potabile da quella del mare...) e alle espressioni del viso che alle parole, Redford conferisce una grande umanità a un personaggio di discendenza hemingwayana, protagonista di un’epica del quotidiano quasi senza tempo (salvo per le allusioni alle navi-container come quella della Maersk Line, che gli passa accanto).
Detto ciò, quello di Chandor è quasi un film sperimentale, dal partito preso originale, coraggioso e ammirevole; il che non lo preserva, però, da qualche momento di noia.