Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 6/2/2014, 6 febbraio 2014
CITTÀ METROPOLITANE, GRANDE ABBUFFATA
L’ennesima gigantesca anomalia italiana sta maturando in Parlamento sulle città metropolitane, «supercapoluoghi» con poteri speciali per governare territori urbani complessi e densamente popolati. Il Censis sostiene che il nuovo ente «non trova riscontro in Europa». A partire dal numero: il disegno di legge del governo Letta ne prevedeva dieci; la Camera diciotto; il testo ora all’esame del Senato venti. Il paragone è impietoso: in Germania, Regno Unito, Francia, Spagna, Olanda e Austria, con 280 milioni di abitanti e 110 grandi aree urbane, i «governi metropolitani speciali» sono solo dieci, la metà di quelli che l’Italia vuole creare con una popolazione quasi cinque volte inferiore. Il motivo del nostro entusiasmo è che l’Ue ha appena attivato specifici finanziamenti per le aree metropolitane. Una lucrosa diligenza che i sindaci non vedono l’ora di assaltare.
Le organizzazioni internazionali considerano «aree metropolitane» quelle con determinate dimensioni fisiche e demografiche, alta densità abitativa, concentrazione di attività produttive e, soprattutto, stretta interdipendenza tra nucleo centrale e hinterland. Nei sette Paesi dell’Europa occidentale analizzati dal Censis ce ne sono 31 con oltre 1,5 milioni di abitanti (tra cui Roma, Milano, Napoli e Torino) e 80 con popolazione tra 500 mila e 1,5 milioni. In assenza di forme di governo particolari, si crea un cortocircuito come accade sistematicamente per le limitazioni di traffico, con i Comuni dell’hinterland contro il capoluogo.
Di città metropolitane si parla da decenni: libri, studi, convegni. Le prevedeva la legge sugli enti locali del 1990, ma non se ne fece niente. Né il rango costituzionale voluto dal centrosinistra nel 2001, né la legge delega di Prodi nel 2007, né il rilancio del centrodestra nel 2009 sbloccarono la situazione. Ci provò anche Monti nel 2012, con un decreto dichiarato incostituzionale. Infine il governo Letta nell’agosto 2013 propone di istituire dieci città metropolitane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Bari, Reggio Calabria) e stabilisce un modello fisso: il sindaco del capoluogo diventa anche sindaco della città metropolitana che ha i confini della Provincia e la sostituisce. Ma non è chiaro quali poteri avrà questo «supersindaco» e come risolverà gli inevitabili conflitti coi colleghi dell’hinterland.
Nella ricerca commissionata dall’Unione delle Province, il Censis rileva che «il dibattito italiano ha assunto un connotato di assoluta specificità, che non trova riscontro in Europa». Nessun altro Paese, infatti, impone dall’alto un modello unico, perché non funziona. «Mai si istituiscono specifici enti metropolitani», sono le esigenze dei territori che producono soluzioni di governo secondo «un impasto di ragioni storiche, assetti amministrativi, scelte condivise e maturate progressivamente». Madrid, Vienna e alcune città-Lander tedesche hanno status privilegiati con funzioni legislative, a Barcellona cooperano gli enti di base, Londra è un unicum con sindaco a assemblea eletti direttamente. Persino nello stesso Stato coesistono modelli diversi: Parigi è una città-dipartimento, Lione e Marsiglia hanno promosso unioni di Comuni.
In Italia, scrive il Censis, «mancano le dimensioni demografiche, manca il dibattito locale, manca il sentimento». Il miraggio dei fondi europei rende metropolitane anche città che secondo gli standard internazionali non lo sono, come Reggio Calabria, inserita nella lista del governo. L’effetto domino si è consumato nella discussione alla Camera, con l’aggiunta di Salerno, Brescia e Bergamo (motivazione: le province hanno oltre un milione di abitanti, il doppio di Reggio...); Palermo, Trieste e Cagliari (capoluoghi di Regioni a statuto speciale, vanno tutelati); un paio tra Padova, Vicenza, Verona a Treviso (insieme oltre 1,5 milioni di abitanti e un’alta concentrazione industriale); Messina e Catania (la legge regionale a statuto speciale le ha già previste, come dimenticarle?).
E sono venti. Si dirà: poco male, visto che le corrispondenti Province vengono abolite. Non è detto: se tre Comuni non vogliono sottostare alle città metropolitane (e c’è da scommettere che ce ne saranno), hanno diritto a sganciarsi dal nuovo ente, facendo rivivere le Province. Giuristi, economisti e Corte dei conti, nelle audizioni alla Camera, hanno segnalato dubbi e criticità. «La logica deve essere la semplificazione, invece rischiamo moltiplicazione di enti e conflitti istituzionali: un pasticcio», dice Antonio Saitta, presidente dell’Unione delle Province. Oggi invierà lo studio del Censis a Letta e Renzi.