Marco Politi, Il Fatto Quotidiano 6/2/2014, 6 febbraio 2014
UNA CATENA DI COMANDO HA OCCULTATO TUTTO
Città del Vaticano
La folgore dell’Onu cade sul Vaticano e illumina violentemente colpe, omissioni, ritardi nel contrastare gli abusi sessuali del clero. Al tempo stesso costringe la Santa Sede a rendere conto di quanto ancora non sta facendo per portare alla luce i crimini commessi e assicurare alla giustizia i preti delinquenti. Ci sono passaggi nel rapporto del Comitato per i diritti dell’infanzia, che sembrano scritti prima del 2010 quando Benedetto XVI fece pubblicamente mea culpa (nella sua lettera ai cattolici d’Irlanda) per i silenzi della Chiesa, il mancato ascolto delle vittime, la disapplicazione delle norme canoniche che punivano il crimine, l’assenza di intervento dei vescovi e – testualmente – la “preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali”. Allora e in seguito Benedetto XVI ribadì più volte che i preti colpevoli dovevano sottoporsi alla giustizia civile. Sia Ratzinger che Bergoglio hanno inasprito la normativa del codice canonico e – a differenza della giustizia civile – i delitti cadono ora in prescrizione solo vent’anni dopo il raggiungimento della maggiore età della vittima. C’è quindi un prima e un dopo.
DELLA STAGIONE precedente fa parte una catena di comando che non ha funzionato. La gran massa dei vescovi ha trattato il problema proteggendo generalmente i colpevoli. Esemplare il caso del cardinale Bernard Francis Law, arcivescovo di Boston, trasferito a Roma alla basilica di Santa Maria Maggiore da Giovanni Paolo II per evitargli disavventure con la giustizia americana. Non ha funzionato il controllo della Congregazione del Clero. Vergognosa la lettera che il prefetto della congregazione, cardinale Castrillon Hoyos, scrive nel 2001 al vescovo francese Pican per complimentarsi di non aver denunciato alla magistratura un prete, poi condannato per abuso di undici minori. Non ha funzionato, negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II, la Congregazione per la dottrina della fede guidata dall’allora cardinale Ratzinger: congregazione troppo lenta, troppo legalistica nel reagire ad una serie di casi gravissimi venuti poi alla luce sulla stampa internazionale, troppo silenziosa sui crimini del fondatore dei Legionari di Cristo. Non ha funzionato la segreteria di Stato, retta dal cardinale Sodano, proprio nel caso eclatante di Marcial Maciel Degollado: il governo centrale della Chiesa non ha dato nessun seguito a lettere ufficiali pervenute tramite i nunzi e a denunce pubbliche sulla stampa. Papa Francesco nel suo primo incontro con l’attuale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha ribadito l’impegno della Chiesa a combattere la pedofilia nelle proprie file. Il rapporto Onu, rifacendo tutta la storia, mette però in luce tutto ciò che oggi ancora non funziona. Vale poco l’obiezione di parte ecclesiastica che la Chiesa non è una multinazionale e il Vaticano non ne sarebbe il quartiere generale. Perchè certo il pontefice non può sapere cosa fa cosa fa un prete in Amazzonia, tocca al vescovo vigilare. Ma spetta ai papi e al loro governo vigilare che tutto l’organismo rispetti e applichi le leggi, che la Chiesa stessa si è data. Tanto più che il cattolicesimo gode – unico fra le religioni – di una fisionomia statuale. E allora il centro deve rendere conto del funzionamento delle sue norme in periferia. C’è da fare moltissimo. Benedetto XVI incaricò le conferenze episcopali di dotarsi di Linee-guida per contrastare il fenomeno. Ci sono conferenze episcopali, che si sono dotate di strutture nazionali e diocesane serie, e ci sono conferenze episcopali – fra cui brilla la Cei – che finora si sono rifiutate in tutti i modi di assumersi responsabilità nel fare applicare le norme ecclesiastiche. È un atteggiamento di fuga, che non può continuare. Dopo il rapporto del comitato Onu per i diritti dell’infanzia è evidente che dal Vaticano devono arrivare indicazioni cogenti per tutti – con la creazione di strutture ecclesiali locali e nazionali per scoprire i crimini – se la Santa Sede non vorrà trovarsi di nuovo fra tre anni sul banco degli accusati.
INOLTRE non è tollerabile restare a metà del guado rispetto al dovere di denuncia alla magistratura. In coerenza con gli auspici di Benedetto XVI, il Vaticano la deve dichiarare obbligatoria. Se la pedofilia è un crimine, come ha ricordato papa Francesco ai giornalisti tornando dal Brasile, l’omertà di un vescovo non è sostenibile. Dire ad esempio, come fa la Cei, che in Italia il vescovo non è un pubblico ufficiale, è ridicolo. Perché? Se io privato cittadino vedo che per strada massacrano una vecchietta, che faccio? Tiro avanti zitto perché non sono un pubblico ufficiale? Il lavoro del comitato di Ginevra si sta rivelando prezioso. Grazie alle audizioni, cui sono stati chiamati i rappresentanti vaticani, è emerso che Benedetto XVI in due anni ha espulso 384 preti indegni. Bene. Il rispetto delle vittime esige che siano aperte inchieste in tutti i Paesi perché vengano alla luce i crimini nascosti e avvolti nel silenzio. Papa Francesco lo sa dall’esperienza che hanno fatto i suoi connazionali in Argentina. Quando è in gioco la violazione dei diritti umani non esiste una trasparenza a metà. Non si fa pace con il passato, se prima non si porta alla luce tutta la verità. Chiarendo chi è stato colpevole e chi complice. Il comitato ha toccato anche un punto delicato, che finora era stato sempre rimosso: il destino dei figli dei preti. Non c’è dubbio che tutto ciò rappresenti una sfida per il pontificato di Francesco. Ma la Chiesa non può eluderla.