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 2014  febbraio 06 Giovedì calendario

ECCO COME MI PREPARO A MORIRE A NOVANT’ANNI


Alla giovane età di 92 anni sono stato colpito da una malattia di nome leucemia acuta. Qualcuno me la qualifica «terminale». Descri­zione ridicola non solo per la mia età ma per il fatto che l’uni­ca malattia mortale - per tutti gli esseri viventi - mi sembra es­sere la vita, che inizia a spegner­si con la concezione. Se provo il bisogno di parlar­ne, non è perché si tratti di una esperienza particolare. È per­ché nella quasi quotidiana de­nuncia della malasanità italia­na esistono in questo Paese esemplari arcipelaghi scientifi­ci e sociali di eccellenza. Zone come il servizio di Assistenza ospedaliera a domicilio del­l’Ospedale Molinette di Tori­no, fondato da un geniale medi­co torinese di nome professor Fabrizio Fabris nel 1985 (incre­dibile ma vero) di cui mi chiedo chi se ne ricordi ancora. In bar­ba a tutte le carte bollate e buro­crazie che lo soffocano, questo servizio non solo opera egregia­mente (ne sono testimone da quasi mezzo anno) ma è ogget­to di riconoscimento internaziona­le e del sostegno della Comunità eu­ropea. Ne parlo sia per dovere infor­mativo di giornalista sia perché so­no in grado di confrontare questa mia ultima esperienza ospedaliera con quelle fatte in passato per altri malanni anche allora considerati co­me più o meno curabili.
Il servizio di assistenza medica ospedaliera a domicilio consiste in questo: l’ospedale chiede il consen­so scritto del paziente ( non dimenti­chiamoci degli avvocati e di chi cer­ca un po’ di attenzione mediatica) di farlo uscire da una delle tante corsie per farsi curare a casa. Ammesso che non ci sia un caso di masochismo cro­nico che all’ospedale ci sta bene, in questo modo il paziente o la pazien­te si ritrova nel proprio letto. Questo equivale (secondo la formula del Tal­mud) alla riduzione di un sessantesi­mo della malattia. Vero o falso, certo è che per qualsiasi sviluppo del suo malanno e in qualsiasi momento può chiamare al telefono il medico responsabile del suo caso senza te­ma di sentirsi dire che in quel mo­mento lui è occupato con altri mala­ti.
Iniziato il processo di assistenza domiciliare, che stia peggio o meglio il paziente incomincia a ricevere la visita quasi giornaliera di squadre (medico più infermiere) almeno due volte al giorno (nel mio caso ne ho contate 4 trattandosi di esami ra­diologici e cardiologici con nano ap­parecchiature portatili da viaggi in­terstellari); con trasfusioni di san­gue, prese di campioni in provette per esami con risposta in 24 ore. Me­dicine e medicazioni sono gratuite, il che dovrebbe riconciliare un po’ la gente che gode di servizi familiari del genere (ve ne sono parecchi) con l’esattore delle tasse. Per chi ne voles­se sapere di più consiglio di leggere L’Ospedalizzazione a domicilio , sor­prendentemente scritto in un italia­no comprensibile anche per pazien­ti tonti come me (Vittoria Tibaldi re­ferente, ottenibile alle Molinette tel. 0116334771). Provare per credere.
A questa descrizione di questo ser­vizio geriatrico d’avanguardia mi permetto di aggiungere alcuni com­menti personali. Il primo è che que­sto servizio non solo funziona sette giorni alla settimana ma costa alle f­i­nanze pubbliche meno della cura e il mantenimento del paziente al­l’ospedale. Il senso di sicurezza, di costante accompagnamento com­petente che offre ai famigliari impe­gnati in altri obblighi di lavoro o in stato di ansia è notevole.
Il secondo commento lo traggo da una osservazione di André Gide sul rapporto fra medico e paziente in ospedale. Citando a memoria, mi sembra che il succo di quello che Gi­de sosteneva era che quello che il pa­ziente chiede non è un verdetto sul suo stato di salute, ma delle spiega­zioni comprensibili sulla sua malat­tia. Una risposta non affrettata, data con tono non condiscendente, di conforto, se non di compassione, con una traccia di empatia.
Sono aspettative difficili da essere realizzate per un medico che si occu­pa del malato in corsia, nella promi­scuità di altri pazienti, sotto la conti­nua pressione del tempo che man­ca. Del resto l’Università ha prepara­to il medico a far fronte a molte eve­nienze, ma non a questo. Anzi, lo ha messo in guardia a non lasciarsi coin­volgere troppo col malato.
I medici vestono camici bianchi non solo come obbligo professiona­le ma come uniforme e paravento (forse per questo si ammalano me­no) fra il mondo dei sani e dei malati. Spesso nella corsia dell’ospedale il dialogo fra medico e paziente diven­ta un dialogo fra sordi, che fingono di capirsi usando linguaggi differen­ti. Queste domande del malato spes­so insoddisfatte ricevono risposte più spesso nel servizio di assistenza a domicilio, nella familiarità che si sviluppa inevitabilmente fra le parti. Credo sia un aspetto importante del­la cura soprattutto per i pazienti an­ziani che hanno gran bisogno del dia­logo e soffrono dell’isolamento. Ve ne potrebbe essere anche un altro. La mente di molte persone anziane e pensionate non coincide necessaria­mente con una età che spesso li rele­ga allo stato di spazzatura famigliare o sociale. Molti posseggono espe­rienze di vita e di lavoro che possono ancora essere utilizzabili - attraver­so un disegno, una annotazione di diario, di un brano di poesia manda­to a memoria- con una conversazio­ne con un nipote, con un tentativo di umanizzare il gatto o il cane. Fare, aiutare a vivere nel presente, non è cosa sempre facile per un anziano all’ ospedale (dove la prassi nel persona­le sembra essere quella di urlarsi istruzioni, nomi di film o date di fe­rie, a distanze ravvicinate come se quasi tutti i degenti fossero sordi). Rappresenta quel guizzo di vita che impedisce al vecchio di trasformarsi in vittima e peso sociale.
Nel servizio di assistenza a domici­lio questo non è scritto nei protocolli di lavoro. Si sviluppa spontanea­mente fra le parti, arricchendole en­trambe. Può anche offrire un campo di ricerca scientifica, medica, socia­le, psicologica che va ben oltre l’inte­resse della raccolta di dati statistici o economici. È una assistenza che può diventare una offerta di reciproco «lavoro» in quel mercato oggi sem­pre più carente che si chiama umani­tà.