Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore 6/2/2014, 6 febbraio 2014
SE IL DEFLUSSO DI DENARO DAGLI EMERGENTI NON È FINITO
Negli Stati Uniti, dati macro economici migliori del previsto (Ism non manifatturiero) o comunque positivi (175mila assunti secondo Adp) hanno creato un po’ di confusione sui mercati finanziari americani. La cosa è durata tra le 14 e le 17, dopo di che l’indice S&P ha preso la strada del rialzo, fino ad annullare perdite che avevano sfiorato l’1%. Artefice del recupero sembra essere stato il cambio yen-dollaro che, con gli algoritmi dei computer tarati da mesi sulle variazioni della valuta nipponica, è il vero fattore che muove Wall Street. È il rimasuglio del carry trade, per cui l’S&P prende vigore solo quando scivola la valuta giapponese. In effetti c’è talvolta un briciolo di coerenza nel comportamento del dollaro: perché, al di là del quantitative easing (Qe) della Boj (principale fattore guida del cambio), a un rafforzamento dell’economia americana dovrebbe anche corrispondere un irrobustimento della valuta.
Più che l’andamento dei tassi ufficiali nel medio periodo, che per dichiarata volontà della Fed dovrebbero restare quasi a zero per altri due anni, è la sorte del Qe americano a a segnare, nel breve, la strada del dollaro. Cosicché ogni passo verso il consolidamento della ripresa economica dovrebbe accelerare la fine del Qe. Ma ogni contrazione della liquidità finisce per deprimere i mercati finanziari e quelli del credito in particolar modo. Una forte ripresa economica negli Usa è dunque il peggior nemico di Wall Street, tanto più in una delicata fase di passaggio da un’espansione monetaria come mai s’era vista in passato. Ed è per questo motivo che nei giorni scorsi s’erano diffuse analisi secondo le quali gli investitori avrebbero sovrastimato la reale portata dell’economia Usa. In realtà più che mitigare l’ottimismo degli operatori, queste considerazione mirerebbero a frenare il processo di exit strategy intrapreso dalla Fed.
Il Qe aveva mosso fiumi di liquidità su tutte le attività finanziarie che, a un più elevato livello di rischio, associavano alte remunerazioni, come i bond dei mercati emergenti e quelli dei paesi periferici d’Eurozona. Questo fiume di denaro e rendimenti che man mano si riducevano hanno spinto gli operatori finanziari e soprattutto le aziende dei Paesi emergenti a indebitarsi in dollari, attraverso le banche internazionali e in particolare attraverso l’emissione di bond corporate. Uno studio della Bis ha calcolato che dal 2010 al giugno 2013 gli emergenti si sono finanziati per quasi 2mila miliardi di $. Il forte rialzo dei rendimenti negli ultimi 12 mesi (indicativamente, quello del titolo di Stato brasiliano a un anno è volato dal 7 a quasi il 12%) è il sintomo del violento deflusso di denaro che è ben lontano dall’essersi esaurito.