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 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

Finalmente si è addormentato. E’ cosa strana, per lui, far fatica ad addormentarsi. Di solito non fa in tempo a toccare il cuscino che già russa

Finalmente si è addormentato. E’ cosa strana, per lui, far fatica ad addormentarsi. Di solito non fa in tempo a toccare il cuscino che già russa. E’ stato così anche quella sera. Ciao, ciao, buonanotte, un bacio leggero e si è addormentato. Poi, verso mezzanotte e mezza, sento vibrare il letto, come se ci fossero delle scosse. - Ma cosa cazzo fai? Ma stai fermo! Il solito cinismo delle mogli. Mi volto e capisco. Non si sta rigirando nel letto come le persone normali, sta avendo una crisi epilettica, una crisi tonico-clonica di grande male, per essere precisi. Sono un medico e queste cose le so bene. Nessuna avvisaglia, nessun sospetto clinico, eppure mio marito sta avendo una crisi epilettica sotto i miei occhi, nel nostro letto. Le veloci manovre di rianimazione, la chiamata al 118, la telefonata alla zia che venga a tenere la nostra bambina di 4 anni, mentre noi partiamo con l’ambulanza nel cuore nebbioso della notte. Poi la TAC urgente e il referto impietoso. Lui si è svegliato prima dell’arrivo dei soccorsi, stordito, ma cosciente. Non voleva nemmeno salire sull’ambulanza, ma il medico l’ha convinto. Il medico è un collega anestesista, più o meno della nostra età. Abbiamo chiacchierato durante il trasporto, ha anche lui una moglie e due figli piccoli. In teoria io non potrei salire sull’ambulanza, dovrei seguirla con la mia auto. Hanno fatto uno strappo alla regola. Sono anch’io un’anestesista, è notte fonda e c’è la nebbia, ma soprattutto sono incinta di 8 mesi e non riesco più a guidare con questa pancia. In TAC non mi fanno, chiaramente, entrare: – Tu, con quella pancia, te ne stai in camera, ti diciamo cosa c’è quando abbiamo finito. Finiscono e tornano indietro. Lui sulla barella spinta dall’infermiera, la radiologa, l’internista e l’anestesista del 118. Ora mi diranno qualcosa, ora l’anestesista che è stato così gentile durante il viaggio mi parlerà. E invece no. Tutti con la testa bassa, lo sguardo sfuggente. Ma brutto stronzo, abbiamo chiacchierato per tutto il viaggio, mi hai raccontato di tua moglie e dei tuoi figli, mi hai rassicurato e fatta sorridere. Guardami, alza gli occhi e dimmi in faccia che cosa hai visto, cosa c’è nella testa di mio marito. Guardami e dimmi la verità. Ma la verità è terribile, c’è una grossa massa nel cervello e nessuno ha il coraggio di dirmelo. Io l’ho capito mentre mi vengono incontro, rallentando il passo e deviando lo sguardo. Nessuno mi vuole parlare perché io sono l’incubo, sono il peggior malaugurio, quello che non si augura nemmeno ai nemici. Io sono la collega incinta con una figlia piccola e un marito con un tumore al cervello. Io sono loro allo specchio deformante delle brutture della vita. Io sono un cattivo presagio. Prendo la lastra da sola e me la guardo in silenzio, anche lui vuole vedere. Minimizzo e accetto di buon grado il ricovero in Medicina. Solo in appoggio, fino a domattina, che domani poi si decide dove trasferirvi, che domani, poi, con il sole e a bocce ferme, si decide il da farsi. Così ci mettono in una stanzetta di un ospedale perso nella nebbia. Un vicino anziano, che respira a fatica. Un letto per lui, una sedia di plastica per me. il buio e il silenzio di tutti i reparti di notte. Io lavoro in ospedale da tempo, io lo conosco questo silenzio, ma non lo avevo mai vissuto da una sedia di plastica accanto a un letto. Io, di solito, sono quella in divisa, che arriva, su chiamata, per risolvere il problema. Grazie ai sedativi e alla fatica della nottata lui si è addormentato. Dorme di un sonno pacifico e chimico, un riposo innaturale. Io lo guardo e penso che non sia possibile. Non è possibile perché queste cose non succedono a noi. Noi siamo quelli che queste cose le diagnosticano e le comunicano. Noi non siamo quelli ricoverati, noi ricoveriamo. Noi visitiamo e curiamo, noi non siamo questi qui, noi siamo quelli dall’altra parte. Poi mi alzo, devo fare pipì. Da quando siamo arrivati avrò fatto pipì almeno 20 volte. E’ l’adrenalina, lo sai. Vasocostringe e riassorbe liquidi e tu sei in stato di gravidanza avanzata e di liquidi in periferia ne hai da vendere. Allora una mano va in automatico alla pancia: si muove, sta bene. Non ho alcun dato che mi dica che non stia bene, ma io lo so. Lei sta bene. Esco dal bagno e faccio due passi in corridoio. Da qui posso vedere in camera e accorgermi se lui dovesse avere un’altra crisi. Mi siedo su una panca e si avvicina un’infermiera con un caffè. - Lo bevi il caffè o ti da fastidio? - No, grazie, lo bevo volentieri. - Di quanti mesi sei? - Otto. - Che cos’è? - Una bambina. - Che bello, le femmine arricchiscono la casa. Sorrido. Per la sua tenerezza, per avermi portato un caffè, per non aver accennato al motivo per cui sono lì. Come se fossimo sedute a una panchina del parco, o alla fermata del bus. Si allontana e io resto con le mie decisioni da prendere. Devo avvertire i miei. Devo chiamare a casa e dire che cosa è successo. Devo anche chiamare il nostro migliore amico, anestesista anche lui, che ci venga a prendere domani mattina. Suo padre è uno dei migliori neurochirurgi italiani e io voglio che lo operi lui. Devo svegliare tutti nel cuore della notte per gridare la nostra tragedia e non ho voglia di farlo. Mentre organizzo i pensieri e le telefonate da fare, prendo il cellulare e un’onda di piena mi travolge. E, finalmente, piango. Piango di un pianto grande come lo spavento che ho addosso, come il dolore che ho dentro, grande come il tumore che ha lui nel cervello, grande come la mia pancia. E compongo in automatico il numero del cuore, del conforto, del rifugio. - Pronto, mamma? Sono io. L’intervento è stato eseguito brillantemente. A cinque anni di distanza lui è libero da malattia, non prende più nessuna terapia, lavora e fa una vita più che normale. Nostra figlia è nata dopo tre settimane dall’intervento. E’ una bambina allegra e divertente, a riprova del fatto che le emozioni trasmesse nella vita intrauterina non c’entrano un cazzo con il carattere da adulto. Con tutte le lacrime che ho pianto in quel mese, nostra figlia dovrebbe essere una frignona insopportabile. E’ una simpatica strafottente. Meglio così. Da quella notte, ogni anno, la stessa notte, alla stessa ora, io mi sveglio. Li ascolto respirare tranquilli, li guardo e me li godo. Le mie bimbe inconsapevolmente coraggiose e il mio sopravvissuto amore. Lui e il suo piede, rimasto zoppo dall’intervento. Stiamo bene e siamo felici. Ammaccati, ma vivi.