Raffaella Serini, Vanity Fair 5/2/2014, 5 febbraio 2014
IL CUORE NON HA STAMPELLE
[Antonella Ferrari]
«DA BAMBINA AVEVO DOLORI alla gamba sinistra, inciampavo e cadevo. Poi arrivò l’intorpidimento, mi cadevano le cose dalle mani. A 11 anni i medici dissero che erano capricci, a 15 lo stress. A 23 ebbi “finalmente” un nome: sclerosi multipla». A distanza di vent’anni, Antonella Ferrari, attrice, non ha paura di chiamare la malattia con il suo nome, «altro che sindrome demielinizzante come scrivono i medici».
SE NON CI FOSSE LEI A EVOCARLA, la malattia quasi dimenticheresti che c’è. Testimonial dell’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism), ha debuttato nel 2001 in Tv, quando con tanto di stampelle entrò nella soap CentoVetrine. A gennaio è apparsa su Raiuno nella fiction di Pupi Avati Un matrimonio, dove interpretava Anna Paola, disabile, «ma Pupi non mi ha voluta per quello», tiene a precisare. «Il personaggio mi piaceva perché era “normale”, anche se ce l’han messa tutta per farmi “cessa”». A marzo, tornerà a teatro con lo spettacolo tratto dall’autobiografia Più forte del destino (Mondadori, 2012), dove racconta l’esperienza di disabile nel patinato – e cinico – mondo dello spettacolo. «E gli aneddoti sono tutti veri».
Un esempio, per favore.
«Per i colleghi sono o quella che porta via la scena o la sfigata. Ma c’è anche chi pensa che gli attori disabili siano seguiti da un’apposita agenzia. A CentoVetrine alcune attrici erano invidiose perché avevo molta visibilità e dicevano: “La intervistano solo perché è malata”. Oppure: “Certo che la malattia è stata proprio la tua fortuna”».
Quante volte deve dire «mi ha scelto perché sono brava, non perché sono malata»?
«Sempre: non voglio che si pensi che se io recito è solo perché sono “diversa”. Avati mi ha trattata come gli altri, senza sconti. Ma in passato ho avuto la sensazione che qualche regista mi desse due pose per lavarsi la coscienza. Non cerco l’elemosina».
E fuori dal mondo dello spettacolo?
«Su Facebook mi hanno scritto che mi faccio fotografare solo per pubblicizzare le stampelle. Non è così, ma mi hanno dato un’idea: creare una mia linea, glamour e colorata».
La diagnosi tardiva che conseguenze ha avuto?
«La malattia è diventata cronica e difficile da curare. Mi hanno sottoposta all’immunosoppressione totale (una chemio che “abbatte” gli anticorpi, ndr), ma dopo dieci anni si stava sviluppando un tumore, così ho interrotto. Tra il 2009 e il 2010 sono finita in sedia a rotelle».
Tre mesi dopo il matrimonio.
«È stato un periodo terribile, anche perché ha coinciso con la morte di mio padre. Ma mi sono ripresa, con la forza di volontà e con la riabilitazione: sono riuscita a rialzarmi anche se i medici dicevano che non avrei camminato più».
Il giorno delle nozze com’è stato?
«Bellissimo, perché c’era ancora mio padre, anche se era molto malato. Andando verso l’altare ci sorreggevamo l’un l’altro. È stato così anche nella vita: io ero preoccupata per lui e lui per me, non gli è mai andata giù questa figlia debilitata. Piangeva spesso. L’ultimo Natale insieme, entrambi in carrozzina, mi disse: “Antonella, non ce la fai proprio ad alzarti?”».
Gli dedica il finale dello spettacolo.
«Ogni volta è come averlo sul palco. È stato il più grande amore della mia vita. L’unico rammarico è non essere stata con lui quando è morto. Ero appena andata via dall’ospedale quando ci hanno chiamati. Mi sento in colpa perché quando ha chiuso gli occhi era solo».
Lei è la più piccola di quattro fratelli: la scelta di fare l’attrice come è stata accolta in famiglia?
«Mia mamma non sopportava che avessi certe velleità».
È vanitosa?
«Sì. Purtroppo a causa delle terapie ho preso chili: è stato un dolore più grande della malattia. A volte non dicevo di stare male per evitare che mi dessero il cortisone. Di ogni farmaco chiedo: “Fa ingrassare?”».
Suo marito quando l’ha conosciuto?
«10 anni fa. A Roberto non gliene fregava niente del mio lavoro, né della malattia».
Lui con la malattia come ci convive?
«Se io sono forte, lo è anche Roberto. Ma quelle volte in cui mi abbatto, crolla. Come quando sono finita in carrozzina. È stato un periodo duro: ero arrabbiata perché ero io che dovevo aiutare lui».
Troppa empatia.
«Mia madre lo diceva: tu lo vizi, e quando arriverà il momento brutto non sarà pronto. Eppure mi diceva cose bellissime: “Ti ho amato in piedi, ti amerò seduta”. Avevo bisogno di essere debole, invece pretendevano tutti troppo da me».
Tutti tranne Grisù.
«Il mio cane, 7 anni: è l’antidoto alla depressione. Il figlio che non abbiamo».
Ecco, chiariamo la storia dei figli.
«Hanno scritto che io non ho potuto avere figli, ma non è vero, perché le malate di sclerosi possono. Il problema è che, quando io l’ho cercato, ho avuto un peggioramento e il figlio non è arrivato. Io e Roby ci soffriamo molto, ma non ce lo diciamo per pudore. Confido nel Signore».
È credente?
«La fede mi dà speranza. Che non è quella di guarire: il miracolo Dio già lo ha fatto dandomi la forza di andare avanti».
Senza la malattia di tutta questa forza non avrebbe avuto bisogno.
«Non dico grazie alla malattia perché mi ha resa una persona migliore. La malattia è una grandissima sfiga ed è meglio quando non ce l’hai. Forse diventare ballerina come avrei voluto non era il mio destino».
Che cosa rimpiange di più?
«La stupidità dell’adolescenza, pensare a come vestirsi per andare a una festa. Io facevo avanti e indietro dagli ospedali, le prime mestruazioni le ho avute lì, passavo più tempo con i camici che con gli amici».
Col sesso ha avuto problemi?
«La sclerosi è una malattia che colpisce il sistema nervoso: negli uomini può avere conseguenze, nelle donne no».
Il futuro come lo immagina?
«Mi vedo invecchiare con Roby, credo nell’amore eterno: i miei genitori sono stati insieme cinquant’anni. Certo, sarei più contenta se ci fosse un figlio, e se lo Stato italiano permettesse alle donne disabili di adottare. Ma purtroppo a me un bambino non lo danno, dicono che non sono all’altezza. Assurdo, perché io potrei dare tantissimo amore, e quello non si vede dalla cartella clinica».