Carlo Petrini, la Repubblica 5/2/2014, 5 febbraio 2014
ADDIO ALLE BOTTEGHE ALIMENTARI IL CIBO SPARISCE DALLE VETRINE DI CITT
NEGLI Stati Uniti li chiamano food deserts, i deserti del cibo. Sono quartieri, intere aree urbane (più spesso suburbane) in cui è impossibile trovare del cibo fresco senza doversi spostare di parecchi chilometri. Luoghi in cui vivono gli strati più poveri della popolazione.
Quei luoghi sono dotati di pochissimi negozi che smerciano (anche) alimenti: esclusivamente surgelati o precotti, poco salutari e di bassa qualità. I food deserts sono l’estremizzazione drammatica di un fenomeno sociale e di mercato del quale, a ben vedere, quasi nessuna città oggi è immune, neanche le nostre. E si tratta di deserti che non riguardano soltanto ciò che mangiamo.
Pensate al centro della vostra città, che sia piccola, media o grande. Ripercorrete le vie dello struscio, andate nella piazza principale e guardate le insegne dei negozi. Ovunque occhieggiano le stesse catene di biancheria intima, calze, jeans, gioielli, vestiti e scarpe, appena intervallate da un buon numero di sportelli bancari. Marche e marchi multinazionali, con i loro loghi sempre uguali, con lo stesso interior design ripetuto all’infinito che, una volta entrati nel locale, fa sparire tutto quanto c’è fuori: monumenti, arte, architetture. Le nostre vie si sono trasformate in centri commerciali. Il paesaggio urbano che ci si offre genera le stesse sensazioni sfavillanti e più o meno consapevolmente deprimenti a Copenaghen come a Torino, a Dieppe in Normandia come a Portland in Oregon. Non ne sono immuni nemmeno metropoli e grandi centri sudamericani e asiatici. Perfino quelli africani.
Quasi trent’anni fa Slow Food nacque come risposta all’omologazione del cibo, in opposizione giocosa ma seria al paradigma del fast food che stava colonizzando le nostre città, per proporre dappertutto gli stessi alimenti standardizzati. Si riaffermava la ricchezza e la varietà delle cucine regionali come antidoto all’appiattimento dei costumi gastronomici. Bene, oggi quell’omologazione non riguarda più soltanto il cibo, ma tutto il tessuto urbano e di conseguenza anche quello sociale. Perché oltretutto questi negozi, che si aggiungono ai veri centri commerciali, outlet e ipermercati che proliferano in periferia e lungo le tangenziali, in questo modo estromettono del tutto il cibo dalle nostre strade, lo sostituiscono con cose che non si mangiano. Il cibo, la più vivace forma di umanità e di condivisione sparisce dalle vetrine delle nostre città, non ha luoghi e negozi. Si creano piccoli deserti del cibo, di socialità, cultura e piacere; deserti dove al posto della sabbia siamo inondati da mutande firmate e scarpe sportive, uguali come ogni granello di ogni arida distesa di questo Pianeta.
Da questi panorami, cui purtroppo siamo ormai assuefatti, sono sparite le drogherie, le latterie, molte gastronomie, pasticceri, macellai e panettieri. Quasi non ci sono più quelli che si chiamavano gli “alimentari”. Ma anche i calzolai, le mercerie, tanti piccoli esercizi commerciali che sono stati soppiantati da modelli di vendita e consumo così frenetici e artificiosi da risultare molto meno umani di quelli cui eravamo abituati. La crisi, poi, acuisce il processo, mentre gli affitti salgono e solo le grandi catene — o i locali notturni nelle zone della cosiddetta “movida” — possono permettersi di pagarli. È un fenomeno internazionale, fatto di diverse sfumature e cause, ma sempre con lo stesso risultato: mentre da noi la Confesercenti non fa che rimarcare continue riduzioni del numero dei piccoli e medi esercizi commerciali, migliaia di chiusure di negozi ogni mese, a New York per esempio domina la speculazione edilizia insieme al retail delle multinazionali. In questo modo anche lì abbassano le saracinesche i piccoli commerci, i drugstore di quartiere, vecchi caffè e luoghi dov’era possibile consumare un pasto non omologato. Jeremiah Moss, curatore di un blog sulla New York “che svanisce”, ha calcolato — sommando il numero di anni di attività di ogni vecchio luogo di commercio e socialità che ha cessato l’attività senza essere rimpiazzato — che durante l’era Bloomberg sono stati cancellati quasi 7.000 anni di storia della sua città.
Ed è la stessa storia delle persone che animano le botteghe e gli alimentari di tutto il mondo, la storia del piccolo commercio che “umanizza” ciò che vende, foss’anche la confezione di ammorbidente per la lavatrice smerciata in una vecchia drogheria, figuriamoci il cibo. E dal cibo allora, forse, è il caso di ripartire. Anche in questo caso, il modello del fast food o del supermercato, del grande luogo in cui comprare gli alimenti, ha sostituito con la sua serialità ciò che era sempre diverso, ma rassicurante e pieno di umanità: la faccia del droghiere, la favella del panettiere, la perizia del verduraio, la simpatia del macellaio. Qualità e sollievi dell’animo spariti sotto le scritte d’insegne seriali, che per quanto s’impegnino a fare bene le cose non riusciranno mai a sostituire la presenza fisica dei piccoli commercianti nei nostri centri. A parte la comodità dell’acquisto sotto o vicino a casa — senza essere costretti a fare in un colpo solo una spesa monstre nel centro commerciale — è anche più divertente e stimolante entrare in alcuni piccoli negozi piuttosto che in un unico grande capannone.
L’unica soluzione è cominciare a premiare chi resiste, con i nostri acquisti ma anche con politiche dedicate. Inoltre, la presenza delle persone si traduce in relazioni non soltanto tra chi vende e chi compra, ma anche con i fornitori: più facile che in questi casi siano in maggior parte locali. Per il cibo questa è una gran fortuna, che permette di rivitalizzare anche le piccole economie agricole di territorio. Bisognerebbe impegnarsi nel moltiplicarli questi piccoli negozi anche su larga scala: una sorta di franchising-non franchising, in cui la catena è fatta di luoghi semplici e nel cuore del tessuto urbano, minimi ma partecipati, che si approvvigionano in zona e che esaltano le diversità. Tutti simili ma profondamente differenti gli uni dagli altri, uniti in rete (quindi qualche forma di distribuzione nazionale e internazionale “solidale” si può ben realizzare) e diffusi per dare una linfa positiva alle città, offrendo — il che non guasta mai — anche nuove opportunità di lavoro. Attività gratificanti che uniscono le persone, invece di sparpagliarle in un deserto consumistico in cui si stenta a trovare qualcosa di buono, qualcosa di bello.