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 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

IL CASO SINJAVSKIJ – [IL PROCESSO ASSURDO CHE MISE IN CRISI L’IMPERO SOVIETICO]


Il processo che si aprì il 10 febbraio 1966, al Tribunale di Mosca, contro lo scrittore e critico letterario Andrej Sinjavskij e l’amico, poeta e traduttore Julij Daniel, rappresenta per la cultura sovietica un punto di non ritorno. Per varie ragioni. Anche se, dopo la pubblicazione nel ’62 di Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solgenitsyn, sembrava davvero impensabile che si potessero processare ancora degli scrittori per i contenuti delle loro opere, il processo fu il primo segnale dell’imminente giro di vite nei confronti degli intellettuali da parte della nuova dirigenza brezneviana. Allo stesso tempo, però, la reazione orgogliosa dei due imputati nell’aula giudiziaria riuscì a trasformarlo in una sfida per la giovane generazione di artisti e scrittori. Che subito la raccolse.
Sinjavskij viene arrestato l’8 settembre del ’65, dopo che ha appena fatto in tempo a spedire in Occidente il manoscritto da poco completato dei Pensieri improvvisi. Stessa sorte toccherà a Daniel pochi giorni più tardi. L’accusa ci va giù duro parlando di «diffusione di invenzioni calunniose» atte a denigrare lo Stato. Dopo faticose indagini le autorità avevano infatti scoperto che i due avevano pubblicato in Occidente varie opere letterarie (secondo un furioso critico delle Izvestija: «sporchi libelli antisovietici»), occultando i propri misfatti dietro uno pseudonimo. Daniel aveva optato per Nikolaj Arzak. Sinjavskij, alquanto sfrontato, si era invece scelto Abram Terz, rubandolo a un noto malfattore di Odessa cantato dalle ballate popolari: pur con tutta la serietà che ci metteva, la letteratura per lui era pur sempre un gioco.
L’arresto fu la miccia che fece scattare, per la prima volta in Urss, pubbliche manifestazione di dissenso. Il 5 dicembre 1965, Giornata della Costituzione, si svolge infatti a Mosca, a Piazza Puskin, un “meeting della trasparenza” organizzato da Aleksandr Esenin-Volpin (figlio del poeta Sergej Esenin), che – in anticipo di vent’anni sull’era gorbacioviana – chiede trasparenza (cioè glasnost) sul caso dei due scrittori arrestati, e un processo a porte aperte.
Già nel suo svolgimento, il processo mette in scena – per un pubblico a inviti – la sua anomalia rispetto a un’assestata tradizione almeno ventennale. Con un’audacia inusitata, Sinjavskij e Daniel non solo rifiutano il previsto ruolo di colpevoli (in fondo c’era già stato il precedente del ventiquattrenne Iosif Brodskij che – accusato, due anni prima, di “parassitismo” sociale – aveva orgogliosamente rivendicato la propria professione di “Poeta. Poeta traduttore”), ma vanno anche oltre: intavolano con la pubblica accusa dotte disquisizioni sul carattere artificioso dell’opera d’arte e sulla banalizzante identificazione del pensiero dell’autore con quanto messo in bocca ai cartacei personaggi. Afferma Sinjavskij in aula: «le parole non sono realtà, […] l’immagine artistica è pura convenzione, l’autore non si identifica col personaggio. Si tratta di verità elementari…». Certo, ne aveva anche tutto il diritto: il loro è infatti il primo processo nel quale, accanto al Procuratore, siedono come accusatori due critici letterari forniti direttamente dall’Unione degli scrittori (e uno dei due potrà anche permettersi di rovesciare su Sinjavskij e Daniel le parole con cui il critico Sinjavskij aveva descritto pochi anni prima i personaggi di Gorkij: «Su di essi è impresso il marchio della degradazione morale e spirituale, la discordanza fra parole e fatti…»).
Ma continuano le anomalie. Per rispondere alla prevista pubblicazione ufficiale del resoconto del dibattimento (con una prassi che risaliva ai grandi processi politici degli anni Trenta), Aleksandr Ginzburg – caporedattore dell’almanacco poetico (in samizdat) Sintaksis – pubblica nel ’67 (ovviamente all’estero, ma senza pseudonimi) il Libro bianco sul caso Sinjavskij-Daniel, dove sono raccolti anche gli stenogrammi delle udienze ad opera delle impavide mogli dei due imputati. Il dissenso ha acquistato coraggio. Nulla, però, aveva potuto impedire che i due fossero ugualmente condannati: il primo a sette, il secondo a cinque anni di reclusione nei campi di lavoro. Sinjavskij ne sconterà cinque. Espulso nel ’73, emigrerà in Francia dove insegnerà Letteratura russa alla Sorbona.
Ma vediamoli un po’ quei “libelli”. In quelle belle prose risalenti alla seconda metà degli anni Cinquanta (Entra la corte, I grafomani, La gelata, Coinquilini), il trentenne Sinjavskij si mostrava già un maestro del fantastico, realizzatore di «un’arte fantasmagorica […] in cui il grottesco rimpiazzi la descrizione realistica della vita quotidiana», come scriveva nell’eretico saggio Che cos’è il realismo socialista?, su cui ugualmente si era accanita la Procura. Prendiamo ad esempio Entra la corte, racconto perfetto in cui si respira l’atmosfera che era in Noi di Zamjatin: Sinjavskij vi disegna – con attento dosaggio di deformazione e realtà – un apologo su come le grandi mete da raggiungere inesorabilmente sfumano, lasciando solo la crudele autosufficienza dei mezzi che avrebbero dovuto servire la Causa (e Sinjavskij non fa certo distinzioni fra regime sovietico, prassi cattolica o bassi desideri sessuali di qualche personaggio). Nella distopia Ljubimov (1963) si racconta invece di una città abbindolata dalla capacità ipnotica di un meccanico di biciclette che ne diventa il tiranno, portandola alla distruzione. Trappole ideali per letture semplificanti.
Perché c’era sempre un nocciolo di moralitas in quelle baraonde narrative. Ma con la metà degli anni Sessanta Sinjavskij abbandona la finzione. I Pensieri improvvisi, oggi ripubblicati da Jaca Book con ulteriori aggiunte (Pensieri improvvisi con ultimi pensieri, a cura di Sergio Rapetti, che di Sinjavskij è uno dei maggiori conoscitori), questi «appunti occasionali poi riuniti insieme », tentativo di «definire i punti estremi della mia coscienza, quasi le sue coordinate », sono nel loro nucleo originario come una preparazione all’arresto che sente prossimo. In una sorta di inventario dell’anima, Sinjavskij affastella considerazioni sullo spirito russo, sulla sessualità («Il piacere assomiglia a un banchetto in una fogna e predispone alla fuga dalla fonte inquinata»), sull’arroganza umana («Depositiamo i nostri escrementi in tazze igieniche e crediamo di essere salvi»), sulla morte e sulla scomparsa della fede in Dio, in un’atmosfera da ultime cose dell’uomo. Ondeggiando tra l’amato Vasilij Ròzanov delle Foglie cadute e il tagliente Jerzy Lec dei Pensieri spettinati, che certo gli aveva suggerito il titolo, Sinjavskij lascia un’istantanea di quei giorni, dalla quale riesce però a cancellare l’ingombrante (minacciosa) quotidianità che li avvolgeva.
Se si escludono i bei saggi degli ultimi anni (le Passeggiate con Puskin e Nell’ombra di Gogol), d’ora in avanti sarà l’aforisma, il frammento, la misura della sua scrittura. Una voce dal coro (1973), anomala testimonianza dei cinque anni passati nei campi di lavoro, è un montaggio polifonico costruito sulla base delle lettere che Sinjavskij spediva alla moglie due volte al mese (come da regolamento). Anche qui Sinjavskij assembla alla rinfusa annotazioni diaristiche, secche registrazioni della vita nel campo, meditazioni su Swift o Defoe, riflessioni storiche, ricordi di Anna Achmatova, ma soprattutto la voce dei compagni di prigionia, i loro modi di dire, lo slang dei malavitosi perché – in quell’inferno che però mai Sinjavskij descrive come tale, e da dove si torna con stupore alla vita normale «dopo essere già stati seppelliti una volta» – «i pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa».