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 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

IL MIRAGGIO DELL’AMICO ARABO


PAROLE tante, fatti (per ora) pochi. La campagna d’Arabia di Enrico Letta va in archivio con il più classico dei bicchieri mezzi vuoti e una certezza: anche i ricchissimi emiri del Golfo faticano a fidarsi dell’Italia.

I numeri parlano da soli: i Paperoni dei petrodollari hanno in tasca qualcosa come 1.600 miliardi da investire in giro per il mondo, una cifra pari all’intero Pil tricolore. E i «colpi grossi» (copyright del premier) portati a casa dalla missione economica del governo nel Golfo sono il fidanzamento ufficiale tra Alitalia e Etihad — due partner che si corteggiavano già da tempo — e i 500 milioni che il fondo sovrano del Kuwait investirà nel Fondo strategico italiano. Briciole. La stessa cifra, per dire, che il Paris Saint Germain dello sceicco Al Thani è pronta a mettere sul tavolo per regalarsi la prossima estate il sogno proibito di Lionel Messi.
Nessuno, a dire il vero, poteva aspettarsi molto di più. Il mondo — il caso Electrolux docet — è ormai un grande supermercato senza confini dove i venditori (anche di braccia) sono di gran lunga più dei potenziali compratori. E il paziente lavoro di relazioni fatto in questi giorni da Letta darà magari frutti migliori nel medio termine. C’è stato grande interesse «per il nostro ambizioso piano di privatizzazioni », ha assicurato il presidente del Consiglio. Il Qatar potrebbe raddoppiare la propria quota in Eni alzandola verso il 4% e aprire il dossier Fincantieri. Abu Dhabi, dopo aver messo le mani su Alitalia, potrebbe entrare nel capitale di Fiumicino. E un po’ di capitali del Golfo sarebbero pronti a fare la loro parte per la soluzione della delicatissima partita Mps e in quella delle Poste italiane.
La tre giorni di “saldi” mediorientali del Belpaese ha confermato però che Roma — agli occhi di chi decide con i suoi soldi il futuro della terra — resta una Cenerentola cui è difficile dare troppo credito. Hai voglia a impacchettare il prodotto con l’elegante confezione del decreto “Destinazione Italia” (pure un bel passo avanti). La Banca Mondiale ci piazza al 65esimo posto della classifica delle nazioni dove è più facile fare impresa dietro Ruanda, Colombia e Botswana. E nel souk dei mercati mondiali — dove anche i ricchissimi sceicchi hanno imparato a leggere bene cifre e classifiche — paghiamo un pedaggio salatissimo ai nostri cronici ritardi strutturali. L’energia costa troppo, il mercato del lavoro è ingessato, la giustizia civile ha tempi biblici. Risultato: i grandi capitali, compresi quelli del Golfo, vanno altrove. Fermandosi nella penisola solo quando ci sono affari cui davvero non si può dire di no.
Le casseforti degli emiri, su questo fronte, sono un caso di scuola: hanno investito nel nostro paese dal 2000 al 2012 pochi soldi, più o meno 5 miliardi sui 1.600 che hanno in cassa. Quattrini tirati fuori tra l’altro solo quando c’era da portarsi a casa trofei da sventolare come status symbol: la Costa Smeralda (comprata per 200 milioni dal Qatar), una quota della Ferrari — rilevata e rivenduta da Mubadala — i grattacieli di Porta Nuova a Milano, grandi hotel, il marchio Valentino e il 6% di Unicredit, la più internazionale delle banche di casa nostra, finito nel portafoglio degli Emirati. La Spagna, per dire, ha intercettato dal Medio Oriente il triplo degli investimenti, finiti spesso tra l’altro in importanti interventi infrastrutturali. E dei 4.700 miliardi — il 7% del Pil mondiale — in portafoglio ai grandi fondi sovrani, a Roma arrivano solo gli spiccioli: nella hit parade dei paesi preferiti per lo shopping dai nuovi padroni del mondo («articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», diceva profetico Enrico Cuccia) l’Italia è mestamente al ventesimo posto, il settimo tenendo conto solo dei paesi europei.
L’era in cui Totò riusciva a piazzare ai turisti ricchi e sfaccendati la Fontana di Trevi — o in cui Gheddafi comprava mezza Italia a scatola chiusa — non c’è più da molto tempo. Gli emiri non sono benefattori. E dopo le fregature prese entrando nelle banche Usa dopo il crac Lehman si sono circondati di banchieri d’affari e d’avvocati. E compreranno Alitalia, Fiumicino, Fincantieri, le reti Terna e Snam o Mediaset Premium — nel mirino di Al Jazeera — solo se il sistema paese sarà in grado di garantire loro un adeguato ritorno. «Ognuno in Italia dovrà fare la sua parte», ha detto Letta riferendosi al gioco di squadra con banche, sindacati, authority e ministeri che sarà necessario nelle prossime settimane per riuscire a convincere Etihad a salvare Alitalia. Magari, come sempre ci capita quando siamo con l’acqua alla gola, il miracolo questa volta riuscirà. Ma la vera ricetta per convincere gli amici arabi a mettere mano davvero al portafoglio (e per far ripartire il Pil) è rimboccarsi le maniche e attaccare quei nodi strutturali che ci hanno relegato da anni nella Serie B del business mondiale.