Koala, Il Fatto Quotidiano 5/2/2014, 5 febbraio 2014
LA VERA VITTIMA DEL CASO FIAT È L’UNIONE EUROPEA
La vicenda Fiat-Chrysler, oggi FCA, con la sua decisione di portare la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna fa emergere le contraddizioni di una Europa comunitaria che comunitaria non è, essendosi rallentato da tempo il processo di vera unificazione. La decisione di Sergio Marchionne e di John Elkann, infatti, nonostante le legittime preoccupazioni non fa una grinza perché manager e azionisti non possono che perseguire il massimo profitto con il minimo costo possibile, naturalmente nel rispetto delle leggi e dei contratti sindacali. Il diritto societario olandese e la disciplina fiscale inglese, infatti, consentono da un lato all’azionista di maggioranza relativa un controllo dell’azienda più certo e più forte e all’azienda stessa un minor costo fiscale il tutto nell’interesse degli azionisti e degli stessi lavoratori la cui speranza si identifica sempre con una solidità finanziaria della società, elemento essenziale per crescere e prosperare. La scelta della Fiat, quindi, non è grave di per sé. È grave, invece, perché apre uno spaccato visibile della disunione europea.
Se la comunità europea, infatti, pur avendo in più della metà dei Paesi membri una moneta unica, tollera a distanza di 15 anni dalla nascita dell’euro una diversità fiscale sulle imprese e nel diritto societario così netta e forte, è segno che non è consapevole delle crepe che tale diversità alimenta nell’Unione europea. Se invece ne fosse consapevole, sarebbe la testimonianza di una sua impotenza.
Troppo diversi per stare insieme
I 28 paesi della comunità, inoltre, hanno al proprio interno veri paradisi fiscali e bancari (Canarie, Cipro, Irlanda, Isola di Jersey, Isola di Man, Lussemburgo, Malta e Regno Unito) che mal si addicono non solo al processo di unione politica dell’Europa comunitaria, ma anche al giusto avvio dell’Unione bancaria perseguita dalla Banca centrale europea. Per banche e società costi diversi per il “fund raising”, la raccolta finanziaria, tassazioni diversificate sia sulle aziende sia sui dividendi distribuiti, paradisi fiscali con barriere non del tutto abbattute per quella trasparenza più volte evocata in questi ultimi anni al fine di contrastare l’evasione fiscale, son tutti elementi che lasciano emergere un’Europa che mentre regola e disciplina minuziosamente la procedura di ogni comportamento e di ogni attività, di fronte al Dio danaro garantisce libertà assoluta tanto da offrire ai ricchi e ai potenti di poter scegliere fior da fiore per allocare le proprie sedi fiscali e legali. Una vergogna non di poco conto utilizzata a piene mani anche da società pubbliche o partecipate dallo Stato di uno dei paesi membri. Paradossale fu il caso della Seat Pagine Gialle acquistata da una srl Otto composta dalla De Agostini e da altri, compreso il ministero del Tesoro. Questa nuova società si accorse della voracità del fisco italiano guidato da Vincenzo Visco e decise di trasferirsi in Lussemburgo chiamandosi Huit (che fantasia). Il paradosso di quella legittima decisione era che uno dei soci della Otto trasformata in Huit era anche il Tesoro italiano per cui il ministro Giuliano Amato consentì che una sua partecipata fuggisse in Lussemburgo per non pagare tributi al suo collega ministro delle Finanze Vincenzo Visco. È l’Italietta dei furbi che nel caso specifico si martellavano i cosiddetti. Ebbene, dinanzi a questo scenario decadente, da un anno a questa parte si discetta se uscire o meno dall’euro in un’orgia di provincialismo culturale e politico.
Nessuno sembra accorgersi che se tutto continua ad andare in questo modo sarà l’euro ad abbandonare il suo ruolo di moneta unica e a lasciare in brache di tela i Paesi, nessuno escluso, che l’hanno adottato. Ma i guasti eventuali non saranno solo quelli monetari. Se l’andazzo è quello descritto, ogni Paese farà per proprio conto sul terreno fiscale e societario. Anzi, saremmo davvero interessati a sapere il perché di questo assordante silenzio italiano, un Paese che tace quando ad altri si concedono quei livelli di flessibilità nei parametri del rapporto deficit/Pil che si negano all’Italia e che tace sempre di più quando prosperano quei paradisi fiscali e bancari inglesi, irlandesi, ciprioti e via di questo passo mentre a ogni minima iniziativa verso il nostro sistema bancario o produttivo scattano indagini e procedure di infrazione.
Il semestre italiano di presidenza europea, che sul terreno vitale si ridurrà a poco più di un trimestre, vista la concomitanza delle elezioni europee e la conseguente nomina della Commissione che richiederà qualche mese di tempo, potrà e dovrà caratterizzarsi proprio su questo terreno per avviare un processo di omologazione nel settore tributario e in quello del diritto societario che aiuta ad annullare quella sleale concorrenza di paesi che pure vogliono sentirsi in una comunità che non può essere solo commerciale. La posta in discussione è un patrimonio di valori e di risultati di sessanta anni di vita europea e sciuparla per convenienze private e pigrizie pubbliche sarebbe un delitto verso le generazioni che ci seguiranno.