Camilla Conti, Il Fatto Quotidiano 5/2/2014, 5 febbraio 2014
TOP MANAGER DI STATO INCASSANO MILIONI, PER AVER FATTO COSA?
Più faccio crescere l’azienda, più guadagno. L’equazione del mercato dovrebbe essere sempre applicata alle buste paga dei manager. Soprattutto se di mezzo ci sono i soldi degli italiani. Ovvero se la società in questione ha lo Stato fra i suoi principali azionisti. Come nel caso di Finmeccanica, Eni, Enel e Terna che tra poche settimane, insieme a un’altra settantina di partecipate pubbliche (tra cui le Poste) dovranno rinnovare i loro consigli di amministrazione.
Formalmente a decidere sarà la nuova “commissione nomine” del ministero del Tesoro assistita dagli advisor internazionali Spencer Stuart e Korn Ferry, società di cacciatori di teste che dovrebbero individuare sul mercato i manager più adatti alle aziende in cerca di amministratori. In realtà sulle candidature sono già partite le grandi manovre della politica e l’ennesimo valzer di poltrone suona da settimane al governo con il tandem Matteo Renzi-Silvio Berlusconi in riscaldamento a bordo pista (ma il premier Enrico Letta non rimarrà certo spettatore, come ha dimostrato nel caso del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, rimosso in una settimana) .
Ma chi si meriterebbe davvero di restare in carica? Per rispondere abbiamo fatto una radiografia degli stipendi e bonus incassati dagli amministratori delegati e dai presidenti delle quattro grandi partecipate pubbliche dall’inizio del loro mandato fino al 2012 (i bilanci 2013 non sono stati ancora approvati). Poi abbiamo preso in esame la performance borsistica registrata durante la loro gestione e il valore creato per i soci, chiamato Total Shareholder Return, che tiene conto sia della capitalizzazione sia dei dividendi pagati e che misura, in sintesi, quale beneficio hanno avuto gli azionisti dall’operato del top management.
Il lungo regno di Paolo Scaroni
Partiamo dall’Eni e dal suo presidente, Giuseppe Recchi, che da maggio 2011 a dicembre 2012 ha cumulato 1,5 milioni di euro. Più corposo lo stipendio dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, 68 anni, in carica da giugno 2005, che comunque è rimasto stabile a quota 1,43 milioni l’anno. Va poi aggiunta una parte variabile che fino al 70 per cento è collegata al raggiungimento di obiettivi aziendali. Dal 2005 al 2012 Scaroni ha così portato a casa un totale di 29 milioni. Sul 2012, fanno notare dal Cane a Sei Zampe, si tratta del 42 per cento in meno rispetto ai timonieri dei principali concorrenti come Exxon, Total o Chevron che in media guadagnano poco meno di 11 milioni l’anno. E il 23 per cento in meno rispetto agli amministratori delegati delle 20 maggiori società quotate europee (la media è di circa 8 milioni l’anno). Tanto che nell’assemblea 2013 la politica di remunerazione ha incassato il 96,2 per cento di voti favorevoli di cui il 93 per cento da parte degli investitori non riconducibili allo Stato italiano. E i risultati? In Borsa, dall’arrivo di Scaroni al 31 dicembre 2013, il titolo del gruppo ha ceduto il 17,3 per cento contro il -40,9 per cento del FtseMib e la capitalizzazione è scesa del 20 per cento da 79,75 a 63,56 miliardi. Sul fronte dei conti, però, dal 2005 al 2012 (ultimo bilancio disponibile) l’Eni ha realizzato 69 miliardi di utile con un valore creato per gli azionisti, il Tsr, di quasi il 55 per cento pari a 42 miliardi. Ovvero 1.500 euro per ogni euro guadagnato da Scaroni.
I guai dell’Enel di Fulvio Conti
In Enel da quando si è insediato, fine maggio 2005, al 2012 l’amministratore delegato Fulvio Conti ha guadagnato 25,2 milioni di euro. Al suo stipendio da ad va aggiunto quello da direttore generale più i bonus una tantum, i benefici non monetari e i piani di stock options cui Conti ha partecipato in qualità di direttore della funzione amministrazione, finanza e controllo rivestita fino al giugno 2005 (142.645 euro nel 2005 e 536.726 euro nel 2008). Più semplice il conto dei compensi ricevuti dal presidente Paolo Andrea Colombo che dal suo arrivo, aprile 2011, ha percepito fra stipendio fisso e compensi per comitato nomine e corporate governance un totale provvisorio di 2.310.000 euro. Assai meno del suo predecessore Piero Gnudi, ministro del Turismo nel governo Monti, che dal 2005 al 2010 si era portato a casa circa 9,5 milioni. Il colosso dell’energia elettrica nel corso del 2013 ha ridotto su base volontaria i compensi di breve termine di presidente e amministratore delegato. Per quanto riguarda Conti, si tratta di una sforbiciata del 65 per cento sul 2013 per circa 1,5 milioni. In termini di performance, il valore borsistico dell’Enel dall’inizio del suo mandato a dicembre 2013 è sceso da 45,3 a 29,8 miliardi – complice la crisi dei mercati e la Robin Hood Tax imposta da Tremonti - con un ritorno su 1000 euro investiti di 977,5 euro. Sotto la gestione Conti il gruppo ha comunque aumentato il suo fatturato dai 33 miliardi del 2005 agli attuali 85 miliardi. I dividendi agli azionisti, tra cui il Tesoro, sono stati di 26 miliardi con quasi 46 miliardi di investimenti, una buona parte dei quali realizzata in Italia.
Terna, Catteneo e il business regolato
Al giro di boa del terzo mandato è anche Flavio Cattaneo, l’amministratore delegato di Terna che gestisce la rete di trasmissione nazionale. In carica dal novembre 2005, fino al 2012 Cattaneo ha preso in busta paga un totale di 11,1 milioni passando dai 250mila euro del 2006 ai 2,4 milioni nel 2012 con una punta nel 2011 quando ai 2,4 milioni di stipendio ha aggiunto anche 2,5 milioni di plusvalenze per stock option di anni precedenti, in parte reinvestite in azioni della stessa Terna. Il presidente di Terna Luigi Roth, negli ultimi otto anni ha invece registrato un totale di quasi 4,3 milioni.
Cattaneo ha garantito agli azionisti un rendimento complessivo di oltre il 200 per cento, il migliore fra le società che operano in regime regolamentato, con un ritorno di 3.019 euro su 1000 euro investiti. Dal 2005 il gruppo, controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti con il 29,8 per cento, ha realizzato 4,1 miliardi di euro di profitti (dei quali 2,8 da attività regolamentate) con una capitalizzazione salita da 4 a 7,3 miliardi, ha investito 8 miliardi e ha distribuito quasi 3 miliardi di dividendi agli azionisti.
Pansa, il traghettatore dopo gli scandali
Fra i colossi che dovranno rinnovare il consiglio di amministrazione a primavera c’è infine Finmeccanica. Conclusa l’era di Pierfrancesco Guarguaglini, il suo sostituto Giuseppe Orsi ha preso dal 2011 al 2012 circa 3 milioni come amministratore delegato e 236mila euro come presidente. Il 13 febbraio dell’anno scorso, dopo che Orsi è stato travolto dalle inchieste giudiziarie e arrestato, al timone è arrivato Alessandro Pansa, già direttore generale e consigliere di amministrazione del gruppo, mentre a luglio il governo Letta ha assegnato la poltrona di presidente all’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Lo stipendio di quest’ultimo è di 300 mila euro, nel rispetto del tetto imposto alle retribuzioni dei manager pubblici introdotto dal decreto Salva Italia del governo Monti, anche se essendo Fin-meccanica quotata in Borsa questo limite non è vincolante. Il bilancio 2013 non è stato ancora approvato ma Pansa, che all’atto della nomina ha rinunciato alla parte fissa dello stipendio da amministratore delegato (1,6 milioni), dovrebbe mantenere gli 800mila euro lordi dovuti al direttore generale più eventuali incentivi legati ai risultati. Nel caso di Finmeccanica è dunque complicato fare un confronto fra stipendi e performance anche perché sull’andamento borsistico del gruppo hanno forse pesato più le inchieste giudiziarie e gli avvisi di garanzia spediti ai vertici del gruppo che le strategie industriali. Dal luglio 2005 a fine 2013 Finmeccanica ha perso il 50 per cento del suo valore a Piazza Affari (da 6,3 a 3,1 miliardi) e il titolo ha ceduto il 34,6 per cento con un ritorno su 1000 euro investiti di 763 euro. I mercati sembrano però aver gradito il cambio di rotta: negli ultimi undici mesi la quotazione ha ripreso quota con un +50 per cento.