Valerio Cappelli, Corriere della Sera 5/2/2014, 5 febbraio 2014
«SUL SET SOGNO CON FREUD, PRIMA SCARICAVO BIBITE»
ROMA — Tutta colpa di Freud è una commedia insolita di Paolo Genovese che, con il passaparola, in dodici giorni è arrivata a 5 milioni d’incasso. Ma anche per il protagonista, Marco Giallini, beato tra le donne, è un ruolo insolito. «Per una vita ho fatto il duro». Per strada gli urlavano «Ah Terribile!», riconfinandolo nel malavitoso di Romanzo Criminale da cui si è affrancato.
Qui è uno psicoanalista tollerante, aperto, «la classica persona che vorresti avere come amico o come padre». Ha tre figlie che adora, Vittoria Puccini, Anna Foglietta e Laura Adriani, ognuna alle prese con casi sentimentali fuori controllo. A dirla tutta, Giallini era stato già sdoganato dal marchio del bandito, «ma erano borghesi furbi, vitelloni. Il 70 percento della mia carriera la devo a Verdone per Posti in piedi in Paradiso. Il film di Genovese ricorda le commedie romantiche americane, o quelle francesi. Se ci aspettavamo questo successo? Ormai non si aspetta niente nessuno, non si sa mai quello che la gente vuole. Ma certo ha una sua grazia, non volano parolacce tranne una volta, quando parlo con Alessandro Gassman che ha una relazione con mia figlia piccola, un mio coetaneo il quale dice sempre di essere in procinto di lasciare la moglie».
La vita di questo romano di 50 anni è già un film. La racconta con semplicità, evitando ogni retorica. «Sono nato in una borgata sulla Nomentana. Mio padre era un operaio con la passione per il cinema. Ho fatto mille mestieri, dall’imbianchino al bibitaro, come si dice a Roma, scaricavo la Coca-Cola dal camion. La mia prima passione era la musica, mi vanto di essere un profondo conoscitore di rock. E poi il cinema, anche se non ho mai avuto il sacro fuoco. Mi sono accorto che ero bravo a esprimere sentimenti. La penso come Mastroianni quando diceva che gli attori sprecano la vita a essere famosi e quando lo diventano si mettono gli occhiali scuri per non farsi riconoscere». Più che incontrarla, con la cultura si è scontrato: «Leggevo l’Ulisse di Joyce e non ci capivo niente. Mi sono diplomato da adulto, mi sono iscritto a una scuola di recitazione e ho debuttato a teatro». La compagnia, neanche a farlo apposta, si chiamava Magazzini Criminali. Fu mia moglie Loredana a dare un’accelerata ai miei sogni».
È morta dalla sera alla mattina mentre stava girando con Verdone: «Credevo fosse svenuta. Ci siamo messi insieme a 20 anni e per quasi 30 non ci siamo lasciati un giorno. La forza di ricominciare me l’hanno data i miei due figli, Diego ha 8 anni e Rocco 15, mi fissavano come a dirmi: e adesso? Dormiamo insieme in un lettone enorme, c’è un rapporto fisico, mi piace sentire l’odore dei loro capelli. Ho una nuova compagna, è una cosa recente, stiamo bene, vedremo. So che si muore e la morte l’ho vista più volte, per un incidente in moto avevo 52 fratture, dopo tre mesi recitavo in Romanzo Criminale , posavo le stampelle durante i ciak. Sono un ragazzo preso dal bar e buttato in mezzo alla cultura. E non posso essere più come prima, nell’approccio con la gente, con gli amici di una volta. Vieni frainteso. Cambi anche non volendo». Ma nel mondo che ha trovato, il cinema, la battaglia contro i cliché non è finita: «Quando mi dicono attore romanesco...Se Abatantuono o Bentivoglio recitano in milanese nessuno si arrabbia. Meno male, aggiungo. Ecco, mi sarebbe piaciuto vedere le facce di mio padre e Loredana, ora che ce l’ho fatta; vedere la loro reazione alla campagna contro la violenza alle donne a cui ho partecipato, anche se non mi sento un paladino. Ora devo interpretare una commedia di Massimiliano Bruno. E poi mi metto a aspettare». Che cosa? «Il film d’autore. Quello che incassa 3.000 euro e devo stare zitto per mezz’ora. Così magari mi danno il David di Donatello».