Sergio Romano, Corriere della Sera 5/2/2014, 5 febbraio 2014
LE MOLTE VERITÀ GIUDIZIARIE DEI TROPPI PROCESSI ITALIANI
Senza entrare nel merito del caso, ho sempre ritenuto che il fine del processo penale sia quello di condannare gli imputati quando l’eventuale colpevolezza venga provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In presenza di ragionevoli dubbi, in ossequio al principio di civiltà «in dubio pro reo», gli imputati dovrebbero essere prosciolti. Ora, nel caso Knox-Sollecito, era stata già emessa una sentenza di proscioglimento con formula piena e non è emersa alcuna nuova prova o testimonianza. La sussistenza di legittimi dubbi non è quindi già provata «ipso facto»?
Fabrizio Averardi Ripari
Roma
A proposito del processo per l’omicidio di Meredith Kersher, con condanna, prima, seguita da assoluzione e decisione della Cassazione, per un nuovo procedimento, nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, con condanna a Firenze, in attesa di un altro grado di giudizio, colpisce ancora una volta, la macchinosità del nostro sistema giudiziario. Evidentemente la prima sentenza Bebawi del 1966 con assoluzione e la succesiva condanna del 1968 ancora fanno testo: non sono bastati 46 anni per progredire.
Lamberto Gori
Cari lettori,
Nel diritto penale americano esiste un principio che è stato spunto di innumerevoli trame per film e romanzi. È quello diretto a evitare il «doppio rischio» (double jeopardy), frequentemente evocato ogniqualvolta una persona corre il rischio di essere processata due volte per lo stesso reato. Se questo principio esistesse anche nel diritto penale italiano, gli appelli sarebbero possibili soltanto in presenza di nuove prove, rinvenute dopo la celebrazione del primo processo; e verosimilmente i due imputati di Firenze (Amanda Knox e Raffaele Sollecito) starebbero ancora scontando la pena della sentenza pronunciata nel 2009. Per la verità vi è stata in Italia, nel 2006, una legge che introduceva nel linguaggio giuridico italiano un’altra massima delle giurisprudenza anglosassone («al di là ogni ragionevole dubbio») e stabiliva l’inappellabilità delle assoluzioni. Se la parte relativa all’inappellabilità non fosse parsa tagliata sulle esigenze di Silvio Berlusconi e non fosse stata eliminata dalla Corte costituzionale nel 2007, i due imputati di Firenze non sarebbe stati processati per la terza volta e si godrebbero indisturbati la libertà conquistata nell’ottobre del 2011.
Nel mondo del diritto, quindi, non esiste la Verità con la maiuscola. Esiste una più modesta verità giudiziaria rappresentata dall’atto finale di un percorso che in Italia è particolarmente lungo e che ha prodotto, nel tempo, una impressionante sequenza di sentenze contraddittorie. Qualcuno potrebbe sostenere che il percorso è garantista, ma altri potrebbero osservare che tante sentenze di segno opposto su una stessa vicenda creano, come osserva giustamente Averardi Ripari, il sentimento dell’esistenza di un «ragionevole dubbio». È forse irragionevole avere qualche dubbio se magistrati di pari grado e di analoga esperienza professionale giungono a conclusioni così diverse?
Aggiungo che questo sentimento è rafforzato dai pubblici interventi di molti magistrati. Penso in questo caso all’intervista concessa a La Stampa del 1° febbraio dal presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze che ha condannato Knox e Sollecito. Il giudice non ha fatto rivelazioni e non ha detto a mio giudizio nulla di compromettente, ma ha inevitabilmente collegato il processo alla sua persona e ha involontariamente incoraggiato il dubbio che le sentenze possano cambiare da un giudice all’altro.