Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

TRA LIQUIDI E AMPOLLE, QUANDO I NEGOZI FECERO BOOM


Il primo negozio per «svapatori», termine orribile per indicare i fumatori di sigarette elettroniche, aveva tirato su le serrande quasi in silenzio. «Smooke» c’era scritto sull’insegna. Fumo, ma con due «o». Era in una via semiperiferica di Torino: via Garizio. Una vetrina, tante speranze Era il 2010. Le sigarette elettroniche le trovavi solo in farmacia, o sul web, importate direttamente dalla Cina: 53 euro. Il problema era recuperare i liquidi da inserire nelle ampolle. E se c’erano, non sapevano di nulla. Quella vasta gamma di aromi che oggi trovi sul mercato erano un sogno impossibile. E le sigarette elettroniche sembravano più un giochetto destinato ad andare in archivio in pochi mesi che un fenomeno in espansione.
Poi è arrivato il 2012, l’anno del boom. Pubblicità sui giornali, vip con la sigaretta ostentata. Torino è diventata una delle capitali dei negozi per svapatori: uno in ogni via, quasi. Con immancabile corollario di polemiche, entusiasmi, quesiti. E proteste. Quell’anno, durante le feste di Natale, a Bardonecchia, in un locale accanto alle piste il gestore appese un cartello dietro il bancone «Vietato fumare. Anche le sigarette elettroniche». Non poteva farne a meno. C’era gente che protestava. Ma mancava una legge, una norma chiara, e lui risolse il problema con un cartello «fai da te». Fu il primo.
Intanto, però, i negozi per il fumatori alternativi aprivano ovunque. «Bastava una dichiarazione d’inizio attività ed il gioco era fatto», spiega un consulente commerciale, uno che ha seguito l’apertura di centinaia, se non di migliaia di attività commerciali. Costi ridotti, poco impegno. Era sufficiente un mini-locale con una vetrina fronte strada. Un arredamento essenziale. E un po’ di merce in esposizione. E c’era chi progettava di inaugurare nel giro di pochi mesi mini-catene. L’anno dopo, però, c’erano già i primi contraccolpi. Le prime inchieste. I primi sequestri di materiale importato illegalmente o senza tutti i documenti necessari. E poi le prime polemiche, i dibattiti sul «fa bene - fa male». «Chi non aveva il supporto di un grande produttore si è presto arreso» dicono gli operatori del settore. Motivo? C’era troppa concorrenza, c’era nell’aria la minaccia della supertassa del 58,5%.
Ed è arrivata l’estate 2013. Chi ha chiuso ad agosto per le ferie non ha più riaperto. Sono sparite insegne e pubblicità. Solo i grandi gruppi hanno retto. È il «fai da te» che è sparito quasi del tutto. In città come Torino, Milano o Roma le associazioni di consumatori stimano un 60% di attività chiuse. E gli svapatori? Loro non sono «evaporati». I meno motivati hanno ceduto: era troppo complicato cercare sul web gli indirizzi di quei negozi dove trovavi tutto. Resistono gli altri, quelli più motivati. Non sono più centinaia. Ma sono ancora tanti.
Il primo negozio per «svapatori», termine orribile per indicare i fumatori di sigarette elettroniche, aveva tirato su le serrande quasi in silenzio. «Smooke» c’era scritto sull’insegna. Fumo, ma con due «o». Era in una via semiperiferica di Torino: via Garizio. Una vetrina, tante speranze Era il 2010. Le sigarette elettroniche le trovavi solo in farmacia, o sul web, importate direttamente dalla Cina: 53 euro. Il problema era recuperare i liquidi da inserire nelle ampolle. E se c’erano, non sapevano di nulla. Quella vasta gamma di aromi che oggi trovi sul mercato erano un sogno impossibile. E le sigarette elettroniche sembravano più un giochetto destinato ad andare in archivio in pochi mesi che un fenomeno in espansione.
Poi è arrivato il 2012, l’anno del boom. Pubblicità sui giornali, vip con la sigaretta ostentata. Torino è diventata una delle capitali dei negozi per svapatori: uno in ogni via, quasi. Con immancabile corollario di polemiche, entusiasmi, quesiti. E proteste. Quell’anno, durante le feste di Natale, a Bardonecchia, in un locale accanto alle piste il gestore appese un cartello dietro il bancone «Vietato fumare. Anche le sigarette elettroniche». Non poteva farne a meno. C’era gente che protestava. Ma mancava una legge, una norma chiara, e lui risolse il problema con un cartello «fai da te». Fu il primo.
Intanto, però, i negozi per il fumatori alternativi aprivano ovunque. «Bastava una dichiarazione d’inizio attività ed il gioco era fatto», spiega un consulente commerciale, uno che ha seguito l’apertura di centinaia, se non di migliaia di attività commerciali. Costi ridotti, poco impegno. Era sufficiente un mini-locale con una vetrina fronte strada. Un arredamento essenziale. E un po’ di merce in esposizione. E c’era chi progettava di inaugurare nel giro di pochi mesi mini-catene. L’anno dopo, però, c’erano già i primi contraccolpi. Le prime inchieste. I primi sequestri di materiale importato illegalmente o senza tutti i documenti necessari. E poi le prime polemiche, i dibattiti sul «fa bene - fa male». «Chi non aveva il supporto di un grande produttore si è presto arreso» dicono gli operatori del settore. Motivo? C’era troppa concorrenza, c’era nell’aria la minaccia della supertassa del 58,5%.
Ed è arrivata l’estate 2013. Chi ha chiuso ad agosto per le ferie non ha più riaperto. Sono sparite insegne e pubblicità. Solo i grandi gruppi hanno retto. È il «fai da te» che è sparito quasi del tutto. In città come Torino, Milano o Roma le associazioni di consumatori stimano un 60% di attività chiuse. E gli svapatori? Loro non sono «evaporati». I meno motivati hanno ceduto: era troppo complicato cercare sul web gli indirizzi di quei negozi dove trovavi tutto. Resistono gli altri, quelli più motivati. Non sono più centinaia. Ma sono ancora tanti.