Egle Santolini, La Stampa 5/2/2014, 5 febbraio 2014
ADDIO ALL’ELEGANZA DEL TAILLEUR L’UNIFORME DELLE DONNE DI FERRO
Già quel nome, in un francese un po’ azzimato, sembrava condannarlo all’obsolescenza: ma ora che per il tailleur arriva perfino l’esclusione dal paniere dei consumi c’è da pensare che sia finita un’epoca, visto che proprio in tailleur si sono emancipate almeno quattro generazioni di donne. E se una censura dell’Istat forse non basta a cancellarlo, bisogna riconoscere che oggi, con tutte le alternative possibili, da strumento di liberazione è diventato una specie di uniforme-corazza per donne costrette dalla funzione professionale a silenziare la femminilità. In certi casi trasformandosi in multiplo, come un’uniforme: vedi la strabiliante collezione multicolor di Angela Merkel. Vedi quella di Hillary Clinton, sperando che in campagna elettorale si doti di un fashion consultant meno tradizionalista: davvero, per il giuramento, il primo presidente americano di sesso femminile non troverà nulla di meglio da mettersi?
Il completo giacca-gonna, e poi giacca-pantaloni, era (è) la tenuta «comoda», «pratica», «da lavoro», «da viaggio», in cui sentirsi «a proprio agio», e che certo un po’ virilizza riuscendo però a incutere autorevolezza. Abito, almeno nelle intenzioni, da leader politica o capitana d’industria, sennò da preside, segretaria di direzione, docente universitaria; quello che ti fa sentire a posto, che non ti attira sguardi troppo insistenti, da mettere quando ti laurei o vai a un colloquio di lavoro, e pure se diventi presidente della Rai o della Camera (da manuale quelli post-thatcheriani di Anna Maria Tarantola, spesso ornati di spille; da incubo quelli Anni Novanta di una Irene Pivetti non ancora punkizzata, con fularone di complemento). E infatti non va bene quando ti sposi, a meno che tu non lo faccia clandestinamente alle sette di mattina: anche se, per le tutt’altro che clandestine nozze civili con Ranieri di Monaco, nel 1956 la perfetta Grace Kelly ne scelse uno in pizzo Alençon della costumista Mgm Helen Rose.
Gli antenati del tailleur si indossarono addirittura sotto Luigi XIII, ed erano le «hongreline» un po’ da vergine di Norimberga, giacca chiusa da una cintura e sottana coordinata. Il primo in senso proprio arrivò nel 1895 e fu una creazione del sarto John Redfern per la principessa di Galles, ma come sempre toccò aspettare Coco Chanel per capire le potenzialità dell’indumento. Lei lo rese fluido e portabile, scollandolo, profilandolo di passamaneria, facendolo cadere in modo naturale sul corpo grazie a una catena di metallo inserita nella fodera. Fu quella la prima volta in cui un tailleur apparve leggiadro: con Yves Saint Laurent divenne francamente sexy, perché ricordandosi nei completi androgini di Marlene Dietrich e di Greta Garbo, nel 1966 disegnò un meraviglioso smoking per signore che ancora non è passato di moda.
Dalle giacche destrutturate di Giorgio Armani ai gessati di Dolce&Gabbana molto ben portati da Isabella Rossellini, fino a certi modelli rossi Anni Quaranta che Miuccia Prada ha fatto sfilare nel 2009 sopra gli stivali da pescatore, la lunga storia del tailleur conosce il suo momento di gloria negli Ottanta, epoca edonismo reaganiano, con le giacche dalle spalle imbottitissime delle ragazze che lavorano sodo ed esprimono assertività, da Marisa Bellisario alle protagoniste di «Dynasty», da Sigourney Weaver di «Una donna in carriera» alle supermodelle di Versace. Il caso limite è Margaret Thatcher, Lady di ferro in tailleur (spesso di Aquascutum) e borsetta (sempre di Asprey). Jane Law, autorità in materia in quanto costumista del molto ben riuscito biopic con Meryl Streep, racconta che «da quelli azzurro brillante di inizio mandato passò al blu scuro, poi durante la guerra delle Falkland al viola e al tweed, infine al rosso deciso». Sette dei suoi tailleur sono andati all’asta da Christie’s e chissà chi è il feticista che se li è messi in casa. Invece non è mai stato esposto in pubblico, per volontà della proprietaria e della figlia Caroline, il tragico tailleur rosa carico, forse di Chanel e forse no, che Jacqueline Kennedy indossava a Dallas il giorno dell’assassinio del marito. «Mostra a quelle signore texane in visone e braccialetti di diamanti che cos’è il buongusto», le aveva raccomandato il Presidente prima del viaggio fatale.