Stefano Lepri, La Stampa 5/2/2014, 5 febbraio 2014
UNA LEZIONE DALLA CRISI DEGLI EMERGENTI
Proprio la burrasca finanziaria che investe i Paesi emergenti riempie di ragioni l’appello del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano si pronuncia contro la «austerità ad ogni costo» nell’area dell’euro senza rinnegare la «vincolante disciplina di bilancio», ossia le regole del Fiscal Compact adesso in Italia rinnegate da quasi tutti coloro che nel 2012 le votarono.
Lo può fare perché le notizie di questi giorni ci mostrano quale è il vero meccanismo che genera una crisi finanziaria. Poco c’è in comune tra le politiche attuate dai governi dell’India, del Brasile, della Turchia o del Sudafrica. Ciò che ora fa ripercuotere su ciascuno di questi Paesi gli errori di tutti gli altri è che tutti sono stati soggetti a enormi afflussi di capitali che ora fuggono in disordine.
Per evitare la rottura dell’euro si è agito a fondo su uno dei problemi che l’area aveva, quei «deficit e debiti eccessivi» che il presidente della Repubblica ha menzionato a Strasburgo. Doveva essere affrontato; l’errore è stato di ritenerlo, alla maniera tedesca, l’unico. A far precipitare la crisi, scassando i conti pubblici anche dove erano sani, erano stati gli squilibri tra Paesi membri alimentati da troppo euforici movimenti di capitali.
Sì, la costruzione dell’euro era difettosa: vincoli di bilancio degli Stati poco efficaci, o elusi col trucco come nel caso della Grecia; carenza di strumenti comuni per fronteggiare le difficoltà; banche fragili controllate da autorità di vigilanza complici che di fronte al pericolo hanno fatto rientrare precipitosamente i soldi nelle rispettive patrie.
Ma nessuna costruzione sovranazionale hanno in comune i Paesi emergenti che ora soffrono assieme. Di questo occorre chiedere conto ai tanti che avevano pronosticato lo sfascio dell’euro; oppure a chi (come lo studioso di politica internazionale François Heisbourg, a cui Napolitano ha alluso) consiglia di buttare via l’euro per salvare l’Unione europea.
Simile è invece, che per lungo tempo il boom immobiliare in Spagna e la crescita produttiva dell’India (si potrebbero fare altri esempi) siano stati a lungo finanziati dall’estero, inducendo i due Paesi a vivere al di sopra dei propri mezzi, importando più di quanto esportavano, per troppo tempo. I mercati inducono a sbagliare, poi abbattono chi sbaglia.
L’attacco speculativo contro l’euro ha preso di mira l’indebitamento pubblico, accomunando Paesi i cui deficit avevano cause diversissime, irresponsabilità politiche recenti la Grecia, eredità annose l’Italia, massicci interventi antirecessivi la Spagna, risanamento delle banche l’Irlanda. Occorreva agire lì per recuperare fiducia. Senza austerità, la mossa di Mario Draghi nel luglio 2012 non sarebbe stata possibile.
Però si è ecceduto, per vari motivi: dalla cultura economica in voga al tempo (anche alla Bce sotto la presidenza Trichet) secondo cui l’austerità avrebbe curato presto e bene tutti i mali, all’ovvio interesse tedesco di non mettere in discussione il proprio modello economico. All’eccesso si è già in parte rimediato, con successivi aggiustamenti (l’impegno originario dell’Italia era il bilancio in pareggio entro il 2013, 45 miliardi in più di ciò che abbiamo fatto).
Non basta, se le prospettive sono oggi ancora tanto deludenti, specie per i giovani. L’insofferenza contro l’Europa è stata alimentata da politici nazionali che davano all’Europa la colpa di tutto ciò che non sapevano risolvere. Ora gli è scappata di mano. Cercare di imporre il modello tedesco non funziona, e la stessa Germania sta cambiando; senza una svolta prevarranno gli esaltatori di modelli fallimentari, tipo Argentina.