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 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

“ECCO I NOSTRI RAGAZZI-ROBOT: IMPARANO E UBBIDISCONO”


Loro non hanno dubbi: il futuro è nei robot. «Non “divinità”, perché l’essere umano resterà sempre al centro di tutto», dicono. Ma il robot diventerà presto l’elettrodomestico più ambito. Perché multifunzione e perché darà un aiuto decisivo nelle faccende di tutti i giorni. Loro sono le donne della robotica «made in Italy».
Giovani ricercatrici, impegnate in studi diversi, tutte riconosciute a livello internazionale. A fare da sfondo c’è un mondo che, come spesso succede nell’ambito scientifico, è ancora fortemente maschile. «Ma per fortuna non maschilista», aggiungono. Un settore, questo, in cui l’Italia non ha nulla da invidiare a Usa e Giappone. D’eccellenza e in crescita. Del resto, le applicazioni dei robot sono sempre più numerose. Nell’industria, nel mondo dei servizi e dell’assistenza e anche nel settore biomedico.
Elisa Tosello ha 26 anni. È di Padova. Il suo percorso di studi si è svolto nell’università cittadina. Prima una laurea in ingegneria informatica, poi il dottorato che le ha fatto scoprire l’universo degli umanoidi. Quello con cui è alle prese tutti i giorni nell’Ias - il laboratorio dove lavora con altri 11 ricercatori - assomiglia a un bambolotto. È alto una trentina di centimetri. La testa e il petto sono di color bianco lucido. Le braccia sembrano quelle di Robocop.
«Mettiamo a punto i software che rendono i robot intelligenti - spiega -. Un insieme di calcoli e algoritmi che gli permettono di riconoscere i gesti delle persone e di riprodurli. È fondamentale che queste macchine diventino sempre più autonome, in modo da potersi affiancare maggiormente all’uomo». Uno studio che, unito a stage, corsi e alle altre esperienze che ha già accumulato nel settore, l’ha portata a conquistare il «Kanako Miura Travel Award», riconoscimento internazionale che ogni anno viene assegnato alle donne che più si sono distinte nella ricerca sugli umanoidi.
Con lei, è stata premiata Elena Ceserecciu, altra padovana, dell’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova. È impegnata nel progetto internazionale «Xperience». Obiettivo: semplificare i software con cui agiscono i robot, perché possano essere utilizzati da più sistemi operativi. «Il punto - spiega - è che ognuno utilizza programmi specifici che difficilmente riescono ad essere reimpiegati su macchine messe a punto in altri laboratori. Così c’è troppa frammentazione. Si tratta di un limite forte, perché impedisce a enti diversi di collaborare». Lo studio è portato avanti utilizzando iCub, il robot-bambino, presentato al Festival della Scienza di Genova nel 2009. Già all’epoca venne dotato di un sistema «open source» in modo che qualsiasi altro team potesse studiarlo liberamente, apportando modifiche e migliorandone la funzionalità.
«I robot - aggiunge Ceseracciu - devono riuscire a imparare cose nuove in modo generico, cioè avendo esperienza del mondo liberamente, come gli umani. Certo, negli anni sono stati fatti molti passi avanti, ma gli umanoidi continuano ad apprendere lentamente, una cosa alla volta, in uno spazio protetto».
E, d’altra parte, lo sviluppo cerebrale non è tutto. «Buona parte di ciò che i robot possono e potranno fare non dipende dal cervello, semmai dalla loro struttura fisica e da ciò che questa consente di fare», sostiene Cecilia Laschi, docente di Bioingegneria industriale dell’Istituto di Biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Per riprodurre in queste macchine la flessibilità e le cedevolezze del corpo umano, Laschi è partita dallo studio del polpo, animale senza scheletro e con un cervello piccolo, ma con un’estrema libertà di movimento. Obiettivo: realizzare robot con materiali morbidi che gli diano questa stessa possibilità.
La disciplina è la «soft robotic». Una sfida. Ma non è l’unica: non esiste ancora una normativa che regoli la responsabilità in caso di danni a cose o persone a carico dei robot utilizzati nella vita di tutti i giorni. «Ed è inutile sviluppare nuove tecnologie, se poi i nostri prototipi non possono essere messi “in strada”», osserva ancora Laschi. Delle implicazioni etiche e giuridiche derivanti dall’impiego di robot si sta quindi occupando «RoboLaw», progetto di un team internazionale composto da filosofi ed esperti di tecnologia. Lo coordina Erica Palmerini, docente di Diritto privato dell’Istituto Dirpolis del Sant’Anna. «La responsabilità deve essere in capo a qualcuno. L’ipotesi più ovvia è che sia del produttore e del disegnatore del robot - commenta -. Una soluzione, però, non è semplice. Prima di tutto bisogna stabilire se l’eventuale problema sta in un difetto di fabbricazione o se il robot è stato impiegato in modo scorretto». Se un regolamento ancora non c’è, a breve il gruppo pubblicherà delle linee-guida che aiutino a dirimere molti dubbi sul tema.
Intanto la ricerca continua. La robotica sarà sempre più d’aiuto anche in campo medico. Nel micro e nel macro. Arianna Menciassi, altra docente dell’Istituto di Biorobotica del Sant’Anna, ha messo a punto le «pillole robotiche», dispositivi endoscopici in grado di riconoscere i primi sintomi di alcune malattie e di somministrare farmaci. Contemporaneamente si intensificano gli studi nel settore degli esoscheletri. Per molti sono queste apparecchi il nuovo punto di incontro tra robotica e bioingegneria.