Tonia Mastrobuoni, La Stampa 5/2/2014, 5 febbraio 2014
MA BERLINO NON RINNEGA LA POLITICA DEL DEBITO ZERO
Ieri le Camere di commercio tedesche hanno rivisto in meglio le stime di crescita per l’anno in corso: 2%, un ritmo molto poco europeo, da «extraterrestre», da «Cina d’Europa» come molti ormai chiamano la Germania. In realtà il Paese di Angela Merkel ha addirittura superato Pechino, come superpotenza dell’export. Ormai è imbarazzante ascoltare Angela Merkel quando elenca i successi del suo Paese. Disoccupazione sotto i 3 milioni, dai 5 di dieci anni fa. Quella giovanile, in particolare, a pochi punti dalla media nazionale. Un ritmo di crescita che sembra aver già archiviato la crisi. Domanda interna - storico tallone d’Achille - in risalita. Surplus commerciale in «zona rossa», cioè censurabile dalla Ue, oltre il 6% del Pil. Una produzione industriale tornata già ai livelli pre-crisi. Come se lo tsunami da subprime che ha messo in ginocchio il mondo intero fosse stata soltanto una fastidiosa parentesi, per i tedeschi. E in effetti nel 2008, prima della crisi, molti economisti avevano già cominciato ad analizzare le ragioni del «neues Wirtschaftswunder», del «nuovo miracolo economico», dopo quello degli anni ’50.
Difficile che un Paese del genere possa ora pensare di se stesso che abbia sbagliato, che l’austerità, la politica del «debito zero», che Berlino ha scritto per prima, nero su bianco, nella costituzione, possa essere sbagliata. Anche dinanzi all’autorevolezza di un presidente della Repubblica molto stimato, in Germania, come Giorgio Napolitano. Certo, chi ha letto l’ultimo rapporto del Fmi sulla prima economia europea sa benissimo che le imprese sono impaurite dalla recessione di Paesi come il nostro e che stanno bloccando gli investimenti in attesa che si riparta. Il 40%, del resto, è verso l’eurozona. Così com’è evidente ai più onesti che i surplus commerciali sono a somma zero, che dunque non tutti possono imitare il modello tedesco. Ma il fatto che Berlino non cambierà così facilmente idea sulla politica economica imposta anche al resto d’Europa, è facilmente desumibile da due fatti squisitamente politici.
Il primo è che per il Merkel ter è stato confermato al timone delle politiche economiche l’uomo-simbolo di quelle ricette ultra rigoriste, Wolfgang Schäuble. Anche al recente Forum di Davos, il ministro cristianodemocratico ha confermato che non c’è spazio per illusioni: niente eurobond finché non ci saranno politiche fiscali in comune, per esempio. E gli unici che avrebbero potuto ammorbidire il rigorismo tedesco, i partner di coalizione dell’Spd, hanno accettato senza troppe resistenze di cancellare gli eurobond addirittura dal contratto di coalizione. Dunque, anche se non è esportabile - e i tedeschi lo sanno bene - il più grande ostacolo alla fine dell’austerità in Europa, è il grande successo della Germania.
Ieri le Camere di commercio tedesche hanno rivisto in meglio le stime di crescita per l’anno in corso: 2%, un ritmo molto poco europeo, da «extraterrestre», da «Cina d’Europa» come molti ormai chiamano la Germania. In realtà il Paese di Angela Merkel ha addirittura superato Pechino, come superpotenza dell’export. Ormai è imbarazzante ascoltare Angela Merkel quando elenca i successi del suo Paese. Disoccupazione sotto i 3 milioni, dai 5 di dieci anni fa. Quella giovanile, in particolare, a pochi punti dalla media nazionale. Un ritmo di crescita che sembra aver già archiviato la crisi. Domanda interna - storico tallone d’Achille - in risalita. Surplus commerciale in «zona rossa», cioè censurabile dalla Ue, oltre il 6% del Pil. Una produzione industriale tornata già ai livelli pre-crisi. Come se lo tsunami da subprime che ha messo in ginocchio il mondo intero fosse stata soltanto una fastidiosa parentesi, per i tedeschi. E in effetti nel 2008, prima della crisi, molti economisti avevano già cominciato ad analizzare le ragioni del «neues Wirtschaftswunder», del «nuovo miracolo economico», dopo quello degli anni ’50.
Difficile che un Paese del genere possa ora pensare di se stesso che abbia sbagliato, che l’austerità, la politica del «debito zero», che Berlino ha scritto per prima, nero su bianco, nella costituzione, possa essere sbagliata. Anche dinanzi all’autorevolezza di un presidente della Repubblica molto stimato, in Germania, come Giorgio Napolitano. Certo, chi ha letto l’ultimo rapporto del Fmi sulla prima economia europea sa benissimo che le imprese sono impaurite dalla recessione di Paesi come il nostro e che stanno bloccando gli investimenti in attesa che si riparta. Il 40%, del resto, è verso l’eurozona. Così com’è evidente ai più onesti che i surplus commerciali sono a somma zero, che dunque non tutti possono imitare il modello tedesco. Ma il fatto che Berlino non cambierà così facilmente idea sulla politica economica imposta anche al resto d’Europa, è facilmente desumibile da due fatti squisitamente politici.
Il primo è che per il Merkel ter è stato confermato al timone delle politiche economiche l’uomo-simbolo di quelle ricette ultra rigoriste, Wolfgang Schäuble. Anche al recente Forum di Davos, il ministro cristianodemocratico ha confermato che non c’è spazio per illusioni: niente eurobond finché non ci saranno politiche fiscali in comune, per esempio. E gli unici che avrebbero potuto ammorbidire il rigorismo tedesco, i partner di coalizione dell’Spd, hanno accettato senza troppe resistenze di cancellare gli eurobond addirittura dal contratto di coalizione. Dunque, anche se non è esportabile - e i tedeschi lo sanno bene - il più grande ostacolo alla fine dell’austerità in Europa, è il grande successo della Germania.