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 2014  febbraio 05 Mercoledì calendario

PERCHÉ I CONTI DI NAPOLI NON TORNANO


Nuovi debiti che cancellano vecchi debiti, in una sorta di catena di Sant’Antonio di cui non si scorge la fine. È questa la contestazione chiave mossa al piano "anti-dissesto" varato l’anno scorso dal Comune di Napoli nel tentativo di schivare il burrone del default. Il piano è stato appena bocciato dai magistrati contabili della Campania, e nella ricca documentazione istruttoria ci sono tutte le bordate destinate a ricomparire nelle motivazioni ufficiali della bocciatura che stanno per essere pubblicate. La partita è ancora aperta, il sindaco ha già annunciato il ricorso alle sezioni riunite ma a giudicare dalle analisi della Corte dei conti il progetto di Palazzo San Giacomo ha bisogno di una ristrutturazione profonda per poter camminare sulle proprie gambe. Oltre che aperta, la partita è delicatissima, per le conseguenze che avrebbe il dissesto della terza città italiana: i tanti creditori del Comune dovrebbero mettersi in fila nella lunga attesa delle transazioni fallimentari, De Magistris e la sua Giunta dovrebbero abbandonare ogni carica elettiva per 10 anni, e la macchina del Comune e delle partecipate andrebbe incontro a una ristrutturazione profonda. A Napoli, del resto, i tempi lunghi del dissesto se li ricordano bene, perché il capoluogo campano è già stato protagonista del default record avviato nel 1993 e chiuso solo a metà degli anni 2000: allora, per legge, pagava lo Stato. Ora in teoria no, ma a Napoli la prospettiva rischia di ripetersi.
La montagna del passivo
I numeri mostrano le dimensioni ciclopiche del passivo da recuperare. Il piano di riequilibrio vale 1,4 miliardi, quasi quanto il gettito annuale in tutta Italia del nuovo tributo sui servizi indivisibili (Tasi) sull’abitazione principale. Per risalire questa montagna, il Comune punta a recuperare oltre 800 milioni dalle dismissioni di immobili e quote delle società partecipate, e di raccogliere il resto dagli aumenti di tributi e tariffe, tagliando qualche spesa corrente nell’organizzazione dei servizi. Un piano ambizioso? Sulla carta sì, ma nell’analisi dei tecnici prima e dei magistrati contabili poi tanto coraggio sembra sfumare. Al punto che, secondo la Corte, invece di portare i conti in equilibrio il piano del Comune di Napoli finirebbe addirittura per aumentare i deficit annuali, dai 570 milioni calcolati per il 2013 ai 651 nel 2023, con un picco a 714 milioni nel 2018.
Chi paga?
Il colpo più duro arriva fin dalla premessa. Il Comune di Napoli ha ricevuto nei mesi scorsi 220 milioni dallo Stato per evitare il crack, e 297 milioni (altrettanti sono in calendario nel 2014) dalla Cassa depositi e prestiti per pagare i fornitori come previsto dal decreto "sblocca-debiti". Questo mezzo miliardo abbondante è stato subito messo a bilancio dal Comune, che ha così abbattuto il proprio deficit da 783 a 267 milioni (un altro rosso da 850 milioni aveva colorato il consuntivo dell’anno prima): peccato, però, che questi soldi sono arrivati a Napoli come «anticipazioni di liquidità», cioè come prestiti che vanno restituiti con tanto di interessi. Il finanziamento, rimarca la Corte dei conti, «non migliora la situazione amministrativa del Comune, in quanto ai debiti smaltiti si sostituiscono i nuovi debiti generati dal ricorso alle anticipazioni di liquidità». Eccola qui, la catena di Sant’Antonio, in cui un debito è cancellato con un prestito che a sua volta genera un altro debito.
Vendesi
Il problema è che al momento le uniche entrate certe sembrano proprio quelle arrivate da Roma, perché anche il vero e proprio "piatto forte" del piano di riequilibrio, la maxi-dismissione immobiliare, pare "forte" solo sulla carta. Palazzo San Giacomo progetta di incassare 800 milioni in dieci anni dalle vendite del mattone, ma per farlo dovrebbe rivoluzionare una storia che a Napoli ha finora creato solo buchi nell’acqua. Nel 2006, per esempio, il Comune ha messo in vendita 15.536 immobili, ma alla fine le dismissioni sono state 2.622. Non solo: i contratti di compravendita si sono poi fermati a quota 1.914, ma solo 670 hanno prodotto qualche incasso. In pratica, le entrate reali hanno riguardato il 4% degli immobili messi in vendita, con un bilancio magrissimo da 52 milioni di euro. L’anno scorso, il Comune ha riprovato ad accelerare, ma senza successo visto che i milioni arrivati in cassa sono stati 19,2 invece dei 31 previsti. Dopo tutti questi inciampi, Napoli prevede di correre al ritmo di 80 milioni all’anno per dieci anni, senza nemmeno «un dettagliato cronoprogramma del suddetto ambizioso piano», per dirla con la Corte dei conti. Ma i magistrati non ci stanno.
Le tasse
Anche le cura fiscale, che prevede di aumentare le entrate alzando aliquote e tariffe, ha un problema, che si chiama «capacità di riscossione». La macchina delle entrate del Comune di Napoli è inceppata, e riesce a portare in cassa poco più del 60% di quanto dovrebbe.Anzi, negli ultimi anni il tasso di riscossione è sceso ulteriormente, i revisori dei conti hanno segnalato «un peggioramento nel recupero dell’evasione tributaria» ed è ovvio che, se le aliquote crescono mentre la situazione economica e sociale della città ha la febbre alta, far pagare le tasse diventa più difficile e il rischio di evasione cresce.
Il buco delle società
Asia, Anm, Caan, Elpis, Bagnolifutura, Mostra d’Oltremare sono solo alcuni dei grani nel rosario delle perdite scritte nei bilanci delle partecipate nel Comune di Napoli, che negli ultimi cinque anni hanno accumulato in media un rosso da 30 milioni all’anno. Il piano di risanamento, però, non cita l’eventuale necessità di ripiani e ricapitalizzazioni e sembra supporre che tutti i conti delle società del Comune debbano magicamente colorarsi di nero. Difficile da pensare, tanto più che i controlli latitano e le spese faticano a trovare un equilibrio. Da anni, per esempio, i Comuni devono calcolare i tetti di spesa sommando il personale del municipio e quello delle partecipate: Napoli, per questa ragione, aveva sforato i limiti, dedicando agli stipendi più del 50% delle uscite totali, incappando nel blocco totale delle assunzioni. Per dribblarlo, al Comune hanno tolto dal calcolo i dipendenti di Anm (Napoletana mobilità; quasi 20 milioni di perdite negli ultimi cinque anni) perché la società opera anche con altri Comuni: l’azienda, però, è del 100% di Palazzo San Giacomo, lo Statuto la definisce soggetta «all’attività di direzione e coordinamento del Comune di Napoli» e per la Corte la mossa contabile è «un mero espediente» per aggirare i vincoli.
E i tagli?
Tutta l’ambizione che nel piano sembra caratterizzare la colonna delle entrate, del resto, sfuma quando si passa ai tagli di spesa. Napoli ha 9.455 dipendenti (più altri 8.500 circa nelle partecipate), ma nel piano di rientro l’organico viene fissato a 10.474, e si prevede di sfruttare fino in fondo tutti gli spazi assunzionali permessi dalle leggi. In prospettiva i risparmi ci sono (85 milioni in dieci anni, calcolo giudicato generoso dalla Corte), ma sono quelli imposti dai limiti al turn over a tutti i Comuni, compresi quelli in salute. Per la Corte dei conti, il progetto del Comune si limita a un «rispetto formale» dei vincoli di finanza pubblica, senza mettere in campo alcun «sostanziale segnale di discontinuità»: non è proprio il massimo, per una città che balla pericolosamente sull’orlo del dissesto.