Alberto Polverosi, Corriere dello Sport 29/12/2013, 29 dicembre 2013
ZOFF FARE IL PORTIERE È COME ALLENARE
Mezzo secolo in porta, così abbiamo deciso di titolare la nostra inchiesta sul mondo dei numeri uno, anzi, sulla storia dei numeri uno. In questo ultimo mezzo secolo di calcio, nessun altro ruolo ha subito la trasformazione come, appunto, quello del portiere. Che prima parava a mani nude e ora deve giocare con i piedi, prima godeva di una specie di impunità e ora se sbaglia l’intervento di un centesimo di secondo prende il rigore e l’espulsione.
Abbiamo intervistato sei portieri in rappresentanza ciascuno del proprio decennio: Giuliano Sarti per gli anni sessanta, Dino Zoff per i settanta, Giovanni Galli per gli ottanta, Luca Marchegiani per i novanta, Gigi Buffon per il 2000, Francesco Bardi per questo decennio non ancora arrivato a metà. È un percorso fatto di istinto e di studio, dalla “calzabraga” rosa di Sarti ai palloni dalla traiettoria assurda dell’epoca di Buffon e Bardi. Su alcuni temi, i 6 numeri 1 hanno opinioni diverse, ma su un punto sono tutti d’accordo, da Sarti a suo nipote Bardi: per stare in porta devi avere la vocazione.
La terza puntata è dedicata a un monumento del calcio italiano, all’uomo del francobollo, Dino Zoff. La sua epoca è stata la più ricca di talenti, come dice lui stesso. Dino ci porta in una stagione felice del portiere italiano, senza dimenticare i migliori stranieri di quell’epoca.
Zoff, perché ha fatto il portiere?
«Non lo so. Ho cominciato a 5 anni, quando non c’era ancora la tv, non avevo un’immagine come riferimento, non avevo nemmeno un’idea del portiere. Forse è stata una vocazione».
Quanto tempo ha impiegato a capire il ruolo!
Sorridendo: «Ho capito subito che non dovevo far entrare la palla in porta».
A che età ha avuto il primo preparatore dei portieri?
«A trent’anni, quando ero a Torino. Per due anni mi sono allenato con Sentimenti IV. Prima erano gli allenatori in seconda a occuparsi dei portieri e alla Juve c’era Bizzotto, un ex centrocampista. Che è tornato ad allenarmi dopo quei due anni con Sentimenti».
Nel suo caso il portiere è più istinto che preparazione, più natura che costruzione. Ma può essere così anche oggi?
«Io avevo una caratteristica importante per migliorarmi: ero molto autocritico. Per questo ero capace di imparare da solo».
E oggi?
«Oggi la preparazione è più particolare, più specifica. Ma non mi sembra che abbia dato questi grandi risultati».
Vuoi dire che non c’è differenza fra un portiere degli Anni Settanta e un portiere di oggi?
«La differenza c’è. Oggi, nonostante la preparazione, il portiere avverte molto di più la pressione rispetto ai miei tempi e questo va a discapito della tecnica, della qualità del portiere. Oggi si blocca meno la palla, si vedono tante respinte, anche su cross lenti, su palloni morti. Certo, il materiale del pallone è più elastico, il piede di chi calcia affonda di più sulla palla e cambia la traiettoria del tiro, ma non è solo per questo che si respinge di più, che si prendono meno rischi. E’ la pressione di tutto l’ambiente: i portieri hanno paura di sbagliare».
Il pallone comunque è un problema.
«Io sono vecchio e mi ricordo quando andavamo a giocare in Inghilterra. Loro usavano una palla bianca, il Mitre, che era molto simile ai palloni di oggi. Qualcuno dice che sono più leggeri, ma è una fesseria. Il peso è lo stesso, cambia il materiale».
Sono cambiate anche le regole: il passaggio indietro va raccolto con i piedi e se fai un fallo da rigore, arriva il cartellino rosso.
«Questa è una regola fuori dal tempo. L’espulsione del portiere ci può stare solo se volutamente, dopo che l’attaccante l’ha saltato, lo trattiene o lo butta giù. Allora va bene il rosso. Ma se uno si butta sui piedi dell’attaccante, quello lo salta e va a terra il giallo basta e avanza. C’è sempre il rigore, o no? Quest’anno l’espulsione di Handanovic a Torino è stata un insulto al buonsenso, anche se ormai da noi il buonsenso non esiste più».
Perché la gente, anzi, la critica, è sempre più benevola nei confronti dell’attaccante che sbaglia un gol davanti alla porta rispetto a un portiere che prende gol per colpa sua?
«È naturale che sia così. L’errore del portiere è determinante ed è sempre più evidente».
Lei come faceva a sopportare le critiche? Se ne infischiava o ne soffriva?
«Le critiche sono critiche per tutti, magari a volte le trovavo esagerate».
Come si superano gli errori?
«Dipende dal carattere e dalla gravita dell’errore. Se lo commetti sul 3-0, passa subito. Se sbagli sullo 0-0, diventa più diffìcile».
Parlava poco fa di pressioni. Pesano tanto di più rispetto a quelle di un terzino, di un centrocampista o di un attaccante?
«Sì, molto di più. In mezzo ai pali e spesso distante dal gioco, il portiere ha dei tempi morti che non ha nessun altro in campo. Non può reagire giocando, ma aspettando. E’ una reazione psicologica, nervosa, non materiale».
Il portiere è uno della squadra?
«E’ uno degli undici, ma è diverso da tutti gli altri. Fa parte di quella squadra, ma non è come gli altri».
È diversa anche la sua immagine rispetto a quella dei suoi compagni?
«Completamente diversa. Quando Dida fece quella sceneggiata a Glasgow, contro il Celtic, rotolandosi per terra perché un tifoso era entrato in campo e lo aveva appena sfiorato, io sono stato male per lui. Mi sono vergognato. Ma come, un portiere che fa quelle cose? Impossibile per il mio modo di pensare. Un portiere non lo può fare mai».
Si dice che oggi i portieri escono meno di una volta. Verità o luogo comune?
«Luogo comune. Escono come ai miei tempi, anzi, perfino qualche volta in più».
Chi è stato il primo portiere che ha ammirato?
«Jascin. E in Italia Buffon, Lorenzo, lo zio di Gigi. Non era tanto diverso da me».
Adesso chi è il migliore sul piano tecnico?
«Uno come Buffon è all’apice in Italia, in Europa e nel mondo. E’ lui il più bravo».
Secondo lei smetterà con la Nazionale dopo il Mondiale?
«Non so. Ma mi pare che abbia superato i mesi difficili».
Dietro Buffon, quali sono i giovani su cui puntare?
«Per un po’ di tempo ci sono stati Consigli e Mirante, che non sono più ragazzini. Mi ha colpito, in senso positivo, la scelta del Genoa: ha preso un portiere bravo come Bizzarri, ma nonostante qualche errore a inizio stagione ha deciso di proseguire con Perin. Questo da fiducia a un portiere così giovane».
Nei suoi anni, chi era il più bravo?
«Mi piacevano l’inglese Banks, il tedesco Maier e poi il danese Schmeichel. Qualcuno è durato di più, qualcuno di meno, ma sono stati loro i migliori di quel tempo».
Per decenni il calcio italiano ha resistito all’acquisto di portieri stranieri, poi non ce l’ha fatta più e sono arrivati perfino i brasiliani. Perché e successo?
«Perché oggi puoi seguire in tv i portieri di tutto il mondo».
Non c’è anche una ragione tecnica?
«Io ne ho una un po’ particolare, molto soggettiva: con le pressioni che arrivano dall’ambiente del calcio italiano i nostri ragazzini perdono la voglia di andare in porta. E’ il ruolo su cui tutti gli altri, compresi i compagni di squadra, scaricano le responsabilità. Succede la stessa cosa nei confronti dell’arbitro: “Che ci posso fare se abbiamo perso, colpa dell’arbitro”: E allo stesso modo: “Che posso farci se abbiamo preso due gol, colpa del portiere”».
È giusto dire che ogni Paese ha una sua scuola di portieri?
«Era giusto dirlo un tempo. Non è mai bello parlare di se stessi, ma nei miei anni noi italiani eravamo all’avanguardia. C’erano cinque portieri bravi davvero: Sarti, Albertosi, Zoff, Cudicini e Lido Vieri. Adesso il livello si è uniformato a quello degli altri Paesi».
Un portiere deve essere sempre titolare o va bene anche per lui il turn-over? La domanda è legata a Casillas e Diego Lopez.
«Il caso del Real Madrid è un po’ speciale. Il Real in Champions League arriva quasi sempre in fondo, così la Coppa diventa una specie di campionato bis e in più Casillas e Diego Lopez sono due bravi portieri. Se la Champions fosse però ridotta a poche partite, allora sarebbe un problema».
Per tracciare la differenza fra il portiere degli anni Settanta e quello di oggi, lei prima ha parlato delle pressioni. Ma sul piano tecnico, quanto è cambiato il ruolo nell’ultimo mezzo secolo?
«Non è cambiato assolutamente. Forse solo negli anni ’80, quando l’esasperazione del fuorigioco lo costringeva a uscire più rapidamente, il ruolo si è un po’ modificato. E magari un’altra differenza è nell’intervento sull’uomo lanciato a rete: prima il portiere usciva a valanga, oggi non può più farlo ed è costretto ad aspettare».
Cosa direbbe a un ragazzino per spingerlo in porta?
«Vorrei capire prima se ha davvero la passione giusta. Deve sentirla dentro, non si può forzare. Solo dopo gli direi di non avere paura di sbagliare. Se la palla può essere bloccata, fatelo, senza paura, anche se in un campionato vi costa un paio di gol. Ma se respingete sempre, quei gol aumentano».
Ai ragazzini direbbe anche di essere autocritici?
«Qui parlo per me. Io mi sento la responsabilità su tantissimi gol che ho subito, ma la risposta era sempre la stessa: se non sono intervenuto in modo diverso è perché in quel momento non potevo farlo. Adesso trovano tutti delle scuse, ma la maniera più concreta è dire a stesso che hai sbagliato e che non era possibile fare diversamente. Questo ti aiuta a superare ogni difficoltà».
Dino, la parata più bella.
«Tutti dicono quella di Brasile-Italia dell’82, sul colpo di testa di Oscar. Dovevo tenere la palla sulla linea, non respingerla come fanno adesso, perché la mia area era piena di brasiliani. Quella parata ci ha mandato avanti fino a Madrid. Ma io ne dico un’altra, quando giocavo col Napoli, su colpo di testa di Ferrante a Firenze. Per prendere quella palla feci un volo fino in Paradiso. E dicevano che non mi tuffavo...».
(3. segue).
La prima puntata (Buffon) è stata pubblicata il 27 dicembre; la seconda (Sarti) ieri.