Stefano Lorenzetto, Il Giornale 2/2/2014, 2 febbraio 2014
PERFETTO MAESTRO DI CASA: IL LAVORO CHE BATTE LA CRISI
Su che cosa farsi servire a tavola, e su come gli debba essere servito, il milanese Toni Sarcina aveva le idee piuttosto chiare già a 12 anni, quando inscenò una silenziosa protesta contro sua madre che per la terza volta in una settimana gli aveva cucinato le fave. «Mi alzai da tavola e me ne andai nella trattoria Da Ferruccio, in via Pergolesi, dove mio padre era solito giocare a tressette con gli amici e dunque mi avrebbero dato da mangiare a credito. E lì feci la più grande scoperta della mia vita: il menu! Finalmente potevo scegliere sulla carta ciò che mi piaceva di più. Peccato che la pasta fosse scotta». Deciso all’istante che quel tipo di locali, in cui i camerieri si aggiravano fra i tavoli con il tovagliolo sotto l’ascella, non facevano al caso suo, Sarcina cominciò a raggranellare le mance e così poté permettersi di meglio: «Il Motta, vicino alla stazione Cadorna. Ma solo al primo piano, dove cucinavano alla lampada. A 14 anni ero già da Giannino, il ristorante preferito di Italo Balbo e Primo Carnera. Carissimo. Ordinavo un solo piatto: costoletta alla milanese. Bella alta, con l’osso. Non l’orecchia d’elefante che veniva fritta dopo la guerra per sfamare un’intera famiglia».
Da allora Sarcina, insieme con la moglie Terry, ha dedicato 35 anni della sua vita all’arte del cibo: nove enciclopedie scritte per la De Agostini, rubriche in televisione e sui rotocalchi, consulenze con il Policlinico di Milano e con l’istituto riabilitativo di Montescano sui pasti da servire ai malati e ai trapiantati di cuore, fino a diventare il presidente italiano della Commanderie des cordons bleus de France, sodalizio enogastronomico internazionale che prende il nome dal nastro blu dell’Ordine di Santo Spirito, creato nel 1578 da Enrico III di Francia.
Ma poiché l’uomo non è solo ciò che mangia, come pensava il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, ma anche ciò che vede, adesso Sarcina ha deciso di completare l’opera accettando di dirigere la prima scuola italiana per il perfetto maestro di casa. Il progetto della Sleipner academy, fondata dal gruppo che fa capo al finanziere Emilio Ghezzi, è subito piaciuto a Sarcina, che vi è entrato anche come socio insieme con Mario Cornegliani, imprenditore immobiliare. A suggestionare il trio è stata la serie tv Downton Abbey, che va in onda con grande successo in 44 Paesi, ambientata in una tenuta dello Yorkshire e imperniata sulle vicende dei conti di Grantham e della loro servitù a partire dall’affondamento del Titanic nel 1912.
L’accademia aprirà a Pasqua. Ha per simbolo Sleipner, il cavallo di Odino, personaggio della mitologia scandinava. Un’insegna programmatica, visto che si tratta di un destriero a otto zampe. Si presume che anche gli allievi dovranno avere otto gambe per non fermarsi davanti a nessun ostacolo, e pure otto mani e otto occhi per fare tutto e vedere tutto. Eventuali deficienze saranno colmate con 67 ore di lezioni. Il costo di frequenza non proprio abbordabile (dai 2.500 ai 3.000 euro) sarà compensato dallo scouting che gli organizzatori si accolleranno, segnalando gli allievi più meritevoli ai possibili datori di lavoro.
I tirocini per i futuri maggiordomi si svolgeranno nella sede di Altopalato, in via Ausonio a Milano, casa (al piano soprastante) e bottega di Sarcina. Ma una bottega che in realtà è essa stessa una seconda casa. E che casa: mobili in stile, tappeti antichi, broccati, argenti e pentolame in rame per un ristorante privato dove lui e sua moglie tengono corsi di cucina e di pasticceria. «Un tempo la scuola per cordon bleu, guidata da Lidia Salvetti, la leggendaria Lisa Biondi testimonial della margarina Gradina e autrice di centinaia di ricettari, era ospitata nella nostra abitazione di via Amedei, ma dovemmo trasferirci in questa nuova sede perché ci scambiavano per un bordello. Colpa delle frotte di ragazzi che la sera stazionavano nell’androne in attesa che uscissero le loro fidanzate».
Era il 1980. Il primo a credere in Altopalato fu Gualtiero Marchesi, che cinque anni dopo sarebbe diventato anche il primo chef italiano decorato con tre stellette dalla Michelin. Entrò in società con Sarcina e contribuì a lanciare l’associazione nell’empireo. «In questa scuola abbiamo avuto molte giovani promesse, da Carlo Cracco a Davide Oldani, che ancor oggi vi ritornano come docenti. Attorno al tavolone per 32 commensali si tenevano consigli d’amministrazione e si radunavano ospiti di riguardo, fra cui Gianni Agnelli, sua sorella Clara con il marito Giovanni Nuvoletti, Pierre Cardin, Leopoldo Pirelli. Eravamo diventati il teatro della cucina».
Poetica definizione.
«Letterale. Aprivamo per gli illustri prenotati solo il lunedì sera, giorno di chiusura dei teatri cittadini. E mettevamo in scena banchetti ispirati alle opere rappresentate in quel periodo, tipo l’Enrico IV di Luigi Pirandello, presente Giorgio Albertazzi che lo recitava al Manzoni. Era un vero e proprio cartellone che certificava la bravura degli chef. Parlo di Paul Bocuse, Alain Chapel, Heinz Winkler, Nadia Santini, Alfonso Iaccarino».
A parte le incursioni adolescenziali in trattoria, com’è nato questo suo amore per la cucina?
«Per caso. Mio padre giocava a carte con Vincenzo Sisto, funzionario della Duomo assicurazioni. Durante le vacanze estive del 1956, per non vedermi bighellonare, mi mandò da lui a fare l’archivista. Avevo 16 anni. Rimasi nel ramo fino ai 39. Ero diventato direttore generale della Peninsulare del gruppo Abeille, oggi Axa. Però mi annoiavo. Un giorno conobbi don Giuseppe Zilli, direttore di Famiglia Cristiana. Un bell’uomo che piaceva molto alle signore».
Mi sfugge il nesso con la cucina.
«Ci arrivo. Daniela Ferioli, amica di mia moglie, coordinava la rubrica In famiglia su Telenova, l’emittente dei Paolini, e ci offrì uno spazio il venerdì: Terry con i suoi piatti, io con le interviste sul cibo a personaggi famosi, come Vittorio Gassman. Don Zilli ci vide in bassa frequenza sui monitor e si convinse che eravamo la coppia giusta per svecchiare La cucina di zia Betta, storica rubrica gastronomica di Famiglia Cristiana».
In effetti ricordava La cucina di nonna Papera.
«L’anziana zia Betta, al secolo Sara Fuzier du Cayla, donna aristocratica e arcigna, era stata colpita da paresi. Così prendemmo il suo posto. Dopo due anni, don Leonardo Zega, successore di don Zilli, mi disse: “Vi faccio un regalo: ammazzo zia Betta”. E la rubrica divenne Le nostre ricette. La teniamo ancora. Quanto a zia Betta, non ci fu bisogno dell’eutanasia: morì poco tempo dopo».
Che cosa deve saper fare il perfetto maestro di casa?
«Innanzitutto esprimere un modo di essere: buona presenza, cultura, conoscenza dell’inglese. Poi tenere pulita e in ordine la casa, rifare i letti, organizzare i pranzi, ricevere gli ospiti, lavare, stirare, curare il guardaroba, occuparsi delle auto. E sovrintendere all’amministrazione, in modo che i fagiolini non arrivino a costare 80 euro al chilo, come accadeva nella residenza di Silvio Berlusconi».
Che differenza c’è fra il maggiordomo e il maestro di casa?
«Il maggiordomo è il capo del personale di servizio. Sa lucidare le scarpe, ma per lo più lo insegna agli altri e controlla che lo facciano bene. Il maestro di casa si arrangia da solo».
Sono fermo all’assioma per cui il maggiordomo è il colpevole del delitto.
«Dobbiamo tornare al Rinascimento, riappropriarci di quelle qualità cavalleresche nello stare al mondo che l’Italia ha smarrito. Prenda la pasticceria. Oggi furoreggia il cake design. Una schifezza. S’insegna ai ragazzi solo l’arte di decorare i dolci. Quello che viene messo sotto i ghirigori non interessa a nessuno, che sia immangiabile è dato per scontato».
Vabbè che qui a Milano, in via Turati, c’è uno dei pochi atelier d’Italia che vendono rigatini e crestine inamidate, ma secondo lei un giovane d’oggi ambisce a fare il maestro di casa in polpe?
«La crisi economica spinge a cercare nuove professioni e questa è sicuramente una delle più interessanti. Tra le classi agiate cresce la richiesta di personale italiano. La nostra accademia ha l’ambizione di proporre una figura alternativa al domestico filippino e al cuoco srilankese».
Il maestro di casa non può essere una donna?
«Difficile che una donna ripari il motore dell’auto di servizio. Magari è bravissima a lucidare le argenterie con il Sidol, ma dubito che sappia smontare e rimontare le maniglie di ottone delle porte, unico modo per poterle lustrare senza lasciare aloni sul legno».
Ma la patente a lei chi l’ha data? Monsignor Giovanni Della Casa?
«Le basi del galateo le ho imparate da mia madre, che era una pugliese di nobili origini. Però le norme di famiglia vanno adattate ai tempi e corrette con il buonsenso. Esempio: nell’apparecchiare la tavola tutti mettono le forchette a sinistra e i coltelli a destra, come insegna la scuola francese. Ma in Francia non si serve il primo piatto. In Italia sì, quindi la forchetta della pasta va a destra. Alle signore dubbiose chiedo: perché l’invitato dovrebbe correggere un vostro errore, passando la forchetta dalla mano sinistra alla destra al momento di affrontare gli spaghetti? Forse che il cucchiaio per la minestra lo mettete a sinistra? No, lo ponete a destra. E allora ciò che vale per un cucchiaio non può valere per una forchetta? Prima regola universale: tutto va disposto a favore del commensale».
I rebbi verso l’alto o verso il basso?
«È indifferente. In Francia si mettevano le punte delle forchette verso la tovaglia per mostrare agli ospiti lo stemma del casato sulla posateria d’oro e d’argento. Un modo per scoraggiare i furti. E un gesto scaramantico: in tavola niente deve pungere. Ma rovinare una tovaglia di pizzo con i rebbi che rischiano d’infilarsi nei ricami mi sembra una cretinata.
Quindi, meglio rivolti verso l’alto».
E a fine pasto le posate vanno riposte nel piatto a ore 15 o a ore 18?
«Anche qui è indifferente. L’importante è che siano dentro il piatto e non appoggiate al bordo oppure, peggio ancora, sulla tovaglia. Personalmente le rimetto a ore 18, cioè nella stessa posizione in cui le ho trovate ai lati del piatto».
Altre regole universali?
«Nel menu, mai crostacei, mai peperoni e peperoncino, mai funghi, mai aglio: possono causare allergie. Niente secondi problematici, come rane, lumache, rognone. Mai la carne di cavallo o di coniglio, considerati animali d’affezione. Un tempo era vietato anche il pesce, perché nulla doveva arrivare nei piatti dalla cucina. Oggi è ammesso, purché sia perfettamente diliscato. Ma pulire, sfilettare e porzionare una cernia senza che si freddi è impossibile: meglio evitare».
Nient’altro?
«Mai i fiori sulla mensa: il profumo disturba. A centro tavola è preferibile un vassoio di frutta o una piccola scultura».
Il suo maestro di casa dovrà anche soddisfare i languorini della contessa in giallo, come l’Ambrogio degli spot dei Ferrero Rocher?
«Dovrà essere un tuttofare. Però mai ammiccante».
Quanto guadagna al mese un professionista così?
«Dai 1.500 euro netti in su, che significano un costo di 2.500 per chi lo assume. Più un forfait rappresentato da vitto e alloggio se abita nella casa, il che gli consente di accantonare l’intero stipendio. Otto ore di lavoro quotidiane con due giorni di riposo settimanale. In genere si concorda un orario flessibile, per cui magari ha il pomeriggio libero ma la sera deve presentarsi a servire la cena».
Dedica la vita al datore di lavoro, stavo per dire padrone. Le pare giusto?
«No, non è giusto. Ma un ristoratore che abbia famiglia è ugualmente svantaggiato. Mio figlio fa l’archeologo, deve alzarsi prestissimo la mattina. Però nel pomeriggio i cantieri sono chiusi e questo gli consente di prelevare la figlia a scuola».
Alfredo Pezzotti, che è stato per 25 anni maggiordomo di Berlusconi, alla fine ha preferito aprirsi un ristorante.
«Mi mandava qualche cuoco da addestrare quand’era alle dipendenze del Cavaliere. Niente di nuovo sotto il sole: Méot, il miglior ristoratore di Parigi, era stato al servizio del principe di Condé e nel 1791 inaugurò un suo locale in rue de Valois».
Ma non andò a spifferare le faccende di casa al Fatto Quotidiano. Pezzotti, dopo un quarto di secolo, sì.
«Anche Benedetto XVI, vicario di Cristo in terra, sbagliò nella scelta di Paolo Gabriele, suo aiutante di camera. La selezione dei nostri candidati sarà rigorosissima. Ricorreremo ad agenzie d’investigazione. Per essere ammessi nell’accademia non basteranno le buone referenze. Il perfetto maestro di casa vede tutto, sente tutto, ma non ricorda nulla».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.