Gabriele Romagnoli, la Repubblica 4/2/2014, 4 febbraio 2014
IL GRANDE GELO TRA MORANDI E IL BOLOGNA
Sintomi che un Paese sta viaggiando verso la serie B. Primo: c’è gente che scende in strada per protestare contro la presunta svendita di Fredy Guarin dall’Inter alla Juve, nessuno sotto il tribunale di Roma dopo l’assoluzione dell’ex ministro Scajola che compra case presumendo di non doverle pagare. Secondo: una voce che si dichiara appartenente a “un ragazzo normale” minaccia di morte il presidente della Lazio, Claudio Lotito, reo di aver venduto all’Inter il demotivato Hernanes e aver (seppure involontariamente) fatto spazio al ben più giovane e devastante Keita. Terzo: metà dello stadio di Bologna prima fischia una canzone di Lucio Dalla poi se la prende per le critiche di Gianni Morandi. La musica è sfinita: tre indizi, una prova. La retrocessione non la decretano gli analisti di Standard and Poor’s, è un’autosanzione che ci si infligge quando si cade nel tragicomico.
A Morandi dev’essere caduto l’occhio sullo schermo e, un attimo dopo, il mento sul collo. Non era allo stadio sabato scorso, per Bologna-Udinese. Uno sguardo alla tv e per un fuggente attimo non avrà creduto a quel che vedeva: uno striscione contro di lui. Uno? Una serie. E uno passi; due fermi tutti; tre, di nuovo, una prova. Non soltanto che la curva è andata fuori strada, ma che quelli seduti in tribuna l’hanno seguita nel fosso. Perché quando insultano il presidente onorario, se il presidente effettivo è un uomo d’onore si mette di traverso, fa fare un annuncio, si prende i fischi ma salva la reputazione, il senso, la memoria. E il resto del pubblico, altrettanto.
Visto sui giornali di domenica il titolo: “La curva contro Morandi” faceva un po’ ridere. Ma sono i tempi. Di recente abbiamo letto anche: “Equitalia contro Tiziano Ferro” e “Il senatore Esposito contro la Mannoia, mandante delle molotov”. Il campionato non era cominciato bene per i cantanti — bandiera. Il primo a prendersi una penalizzazione è stato Antonello Venditti. Era estate, nessuno credeva nella Roma di Garcia (Gervinho, ma chi è?) e lui minacciò il ritiro dell’inno. Non si capì se non si riconosceva o non era riconoscente. L’accusa di aver sputato nel piatto dove aveva “magnato” se la trovò sul muro di casa. Quella di Gianni Morandi è un’altra storia. Nel piatto ci ha messo novecentomila euro di mancia quando il ristorante stava chiudendo, avrà cantato qualche banalità, ma nessuna che facesse rima con rossoblù e, anche questo conta, giocava a pallone meglio di quasi tutti gli abbonati.
Per chi è cresciuto a Bologna la squadra di calcio e il cantante di Monghidoro sono state fedi parallele. A volerlo, ce n’era una terza: il pci. La città era rossa, aveva conquistato uno scudetto giocando come solo in paradiso e cantava “La fisarmonica”. Poi, inevitabilmente, cominciarono a vincere la Juventus, Claudio Villa o Massimo Ranieri e la dc. Con l’aiuto degli arbitri, della Rai e della Cia. Morandi sparì dalla scena per un decennio mentre anche il Bologna si eclissava. Lui suonava la chitarra alle feste per gli amici («Ma dopo due canzoni mi chiedevano se sapevo fare Battisti», ha raccontato) e il Bologna scendeva in B e perfino in C. Non c’erano presidenti onorari, ma personaggi come Fabbretti o Brizzi che il blasone lo compravano a fette in rosticceria e se ne facevano un foulard. Se si ricerca negli archivi fotografici ci dev’essere un’immagine di Morandi allo stadio anche nella partita con il Fanfulla, perché non ha mai mollato. Di sicuro lui può dimostrarlo, perché tiene un diario di ogni giorno della sua vita da cinquantacinque anni, e ne compirà settanta a dicembre. In una pagina ha annotato che, durante una tournée in Giappone si accorse che i locali cambiavano vagone quando entravano gli italiani, come se fossero infastiditi dall’odore della pelle. Gli è tornato in mente ascoltando i cori razzisti contro i napoletani. Sono risaliti insieme, il Bologna e Morandi. Una ha giocato la semifinale di una coppa europea, anche senza farci un figurone. L’altro, a Sanremo, si è trovato davanti Robert De Niro, in un siparietto con Elisabetta Canalis. Da tutte quelle pagine di ricordi ha condensato una massima universale: «Va come deve andare».
Va che la riconoscenza non è né scontata né dovuta: bisogna rallegrarsi quando viene concessa. Va che Morandi inizia un tour da Bologna proprio alla fine di un campionato poco promettente (sintomi che una società di calcio corre verso la disfatta: non ha un regista, non ha una punta e compra due mezze ali; non ha soldi per pagare gli stipendi; non ha rispetto per chi lo merita senza neppure esigerlo). Va che magari stavolta le strade si separano. È durata una vita, è sfiorita in un attimo.