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 2014  febbraio 04 Martedì calendario

L’ALBUM DI FAMIGLIA CATTOLICO DELL’UTOPIA RIVOLUZIONARIA


Lo snodo che consente di approfondire il rapporto tra cattolici e violenza politica nel secondo dopoguerra ha una data (7 luglio 1960), un luogo (il sagrato della chiesa di San Francesco di Reggio Emilia), e anche un nome: Lauro Farioli. Siamo nei giorni del governo presieduto da Ferdinando Tambroni e sostenuto dal Movimento sociale italiano. Le sinistre sono in rivolta dopo che a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, si è tentato, tra la fine di giugno e i primi di luglio, di celebrare il congresso del Msi. Celebrazione autorizzata dal governo. Ma una rivolta di piazza ha impedito che si tenessero le assise e la rivolta si è subito estesa ad altre città italiane, avendo a bersaglio, oltre al Msi, il governo stesso. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la polizia spara e uccide cinque persone: Lauro Farioli, Afro Tondelli, Ovidio Franchi, Marino Serri ed Emilio Reverberi. Ancora nel 2010, cinquant’anni dopo, Silvano Franchi, fratello di Ovidio, ricordava così quei tragici accadimenti: «Quel pomeriggio ci fu premeditazione e gli omicidi furono portati a termine grazie a un’organizzazione impeccabile da parte dello Stato. Con la grave collaborazione del vescovo di allora, Beniamino Socche, che fece chiudere tutti i portoni delle chiese del centro. Così facendo precluse le vie di salvezza per i manifestanti». A cominciare da quel Farioli il cui corpo giacque, come si è detto, sul sagrato della chiesa di San Francesco. Ettore Farioli, figlio di Lauro, in un’intervista al «Resto del Carlino» del 7 luglio 2010, indicava ancora una volta nell’alto prelato il responsabile del terribile lutto che aveva colpito la sua famiglia: «Era tutto premeditato. I portoni delle chiese quel giorno erano chiusi, più di una persona me lo ha confermato. Il primo tentativo di mio padre è stato quello di entrare in San Francesco. Poi è caduto sul sagrato. Non potrò mai vedere la Chiesa come un’istituzione al di sopra delle parti». Imputato di queste ricostruzioni è sempre stato l’allora vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, avversato dai comunisti fin dal 1946, quando aveva celebrato la messa funebre per don Umberto Pessina, ucciso da ex partigiani nonostante la guerra di Liberazione fosse finita da oltre un anno. Dai tempi del processo per la morte di don Pessina, Beniamino Socche non aveva mai cercato di occultare il suo anticomunismo e si era anche pronunciato per la messa fuori legge del partito di Palmiro Togliatti. Quel 7 luglio — secondo queste ricostruzioni — avrebbe fatto chiudere i portoni delle chiese per impedire che i «comunisti» scesi in piazza contro Tambroni potessero avere una via di fuga dai proiettili della polizia.
In un eccellente libro pubblicato per i tipi di Marsilio, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano , Guido Panvini individua in quell’episodio il prologo della storia che ha ricostruito con impeccabile rigore. Impegnandosi ad integrare l’«album di famiglia» dei brigatisti rossi descritto da Rossana Rossanda alla fine degli anni Settanta. Nei giorni che avevano preceduto l’eccidio, ricorda Panvini, Socche si era espresso duramente sul comportamento dei manifestanti, «contribuendo», scrive, «a innalzare il clima di tensione». A commento dei primi incidenti, il 4 luglio, «La Libertà», settimanale della diocesi di Reggio Emilia, aveva così ammonito il partito di Togliatti: la «violenza genera violenza e non si può calcolare la forza di reazione che episodi come quello di Reggio Emilia possono provocare». Poi, subito dopo l’uccisione di Farioli e degli altri quattro, proprio mentre giungevano notizie di episodi analoghi in Sicilia, Socche volle esprimere la propria solidarietà agli agenti che avevano sparato. Nella relazione mensile della prefettura di Reggio Emilia del 3 agosto 1960 si legge: «L’autorità ecclesiastica ha voluto anch’essa far conoscere il proprio pensiero attraverso la viva voce del vescovo di Reggio Emilia mons. Beniamino Socche, il quale, nel corso di una conferenza tenuta presso il locale seminario alla parte più qualificata del clero, ha rivolto un plauso alle forze dell’ordine per aver saputo tutelare le istituzioni democratiche; dopo aver fatto rilevare la pericolosità e la violenza dimostrata dai comunisti nelle ultime manifestazioni di piazza, ha dichiarato che sono tuttora valide le condanne contro il socialismo emanate dagli organi responsabili della Santa Sede e che, pertanto, qualsiasi collaborazione col comunismo è condannata, come è condannata qualsiasi collaborazione col socialismo unito al comunismo». Un evidente sostegno all’azione di repressione dei moti. E un altrettanto evidente altolà al dialogo che si stava intrecciando tra Democrazia cristiana e Partito socialista italiano; dialogo che di lì a breve avrebbe portato alla caduta del gabinetto Tambroni e alla nascita di un governo presieduto da Amintore Fanfani, appoggiato (tramite astensione) dai parlamentari del Psi.
Qui entra in scena un protagonista della vicenda raccontata da Panvini: Corrado Corghi. Corghi, capo della federazione della Dc di Reggio Emilia, nella riunione della direzionale nazionale del partito che si tiene l’11 luglio, prendendo le distanze dal suo vescovo, condanna l’operato delle forze di polizia. Insinua addirittura che tra i poliziotti siano stati infiltrati amici e complici dei neofascisti. E partecipa ai funerali delle vittime dell’eccidio. Ciò che provoca l’irritazione di monsignor Socche, il quale se ne lamenta con il ministro dell’Interno, Giuseppe Spataro, chiedendo esplicitamente che vengano presi provvedimenti contro l’esponente dc della sua diocesi. «La chiusura delle porte della Chiesa di San Francesco e il corpo di Lauro Farioli davanti al sagrato», scrive Panvini, «assumono, in questo contesto, una valenza emblematica, a prescindere dalla possibilità di accertare se vi sia stata una deliberata decisione da parte delle locali autorità ecclesiastiche di sbarrare le chiese della città in occasione della manifestazione del 7 luglio». Già, perché nella ricostruzione è rimasto in ombra il fatto che monsignor Socche non ricevette nessun rilievo, neanche vago, dal Papa dell’epoca, Giovanni XXIII. Che Pasquale Marconi, deputato democristiano, tra i fondatori del Cln di Reggio Emilia, difese in quel frangente sia il vescovo che l’operato della polizia. Del resto, pochi giorni prima della strage di Reggio, il 1° luglio 1960, l’Associazione partigiani cristiani di Parma aveva denunciato fermamente i tentativi di comunisti e socialisti di «servirsi del nome della Resistenza stessa per inscenare agitazioni e rivolte di piazza, tese ad avvilire o sovvertire gli ordinamenti democratici». Non va dunque trascurata la circostanza che monsignor Socche si sentiva confortato da ex partigiani bianchi, i quali consideravano le manifestazioni contro Tambroni una strumentalizzazione dei sentimenti antifascisti da parte del Pci e un tentativo dei socialisti di forzare la mano alla Democrazia cristiana in vista della formazione di un nuovo governo «aperto a sinistra». In Senato, Raffaele Cadorna aveva sostenuto Tambroni, dimettendosi dalla presidenza della Federazione italiana dei Volontari della libertà, e allo stesso modo Mario Ferrari Aggradi, esponente di spicco del mondo partigiano cristiano, aveva accettato di sostituire alla guida del ministero dei Trasporti Fiorentino Sullo, che, ai primi di aprile, si era dimesso (assieme ad altri due titolari di dicastero: Giulio Pastore e Giorgio Bo) per protesta contro i voti determinanti del Msi. Socche per di più sostenne che le accuse formulate contro di lui da alcuni familiari dei morti di Reggio Emilia non avevano fondamento. Tant’è che don Emilio Landini, in tempi recenti, ha potuto così ricordare — senza peraltro ricevere smentite o puntualizzazioni — quella tragica giornata di luglio: «Il vescovo non aveva assolutamente emanato alcuna disposizione per la chiusura delle chiese. La basilica della Ghiara era aperta, come altre chiese della città, nonostante si trattasse di un primo pomeriggio di luglio. Chiusa invece era la chiesa di San Francesco, prospiciente la piazza dove sono avvenuti gli scontri. Chiusa volutamente per iniziativa del viceparroco (curato) di allora don Cesare Frignani, il quale tuttora ribadisce che, volendo prevenire tafferugli in chiesa, anche altre volte aveva preso la stessa precauzione in occasione di precedenti manifestazioni a rischio di degenerare».
Ma torniamo al luglio del 1960. Fino a quell’estate la Chiesa di Giovanni XXIII sembrava non voler scegliere tra i settori del mondo cattolico favorevoli e ostili al governo Tambroni. Il 19 aprile un articolo del giornale della Dc, «Il Popolo» (Il mito dello Stato forte ), a firma Giovanni Lupo, denunciò — in sottile polemica contro i sostenitori di Tambroni — i movimenti nell’ombra di «notevoli gruppi di “catilinari” nei più diversi partiti» che si attivavano per rafforzare «il potere esecutivo a discapito di quello legislativo». Il 18 maggio «L’Osservatore Romano» pubblicò l’articolo Punti fermi , in cui si ribadiva la condanna del socialismo (vale a dire anche del Psi). Alla fine di quello stesso mese parve che si materializzassero i «catilinari» di cui sopra, allorché i centri Luigi Sturzo organizzarono all’Angelicum di Roma un convegno, coordinato da Luigi Gedda, sul tema «La liberazione dal socialcomunismo». Al convegno presero parte Oscar Luigi Scalfaro, sottosegretario al ministero dell’Interno, e Giuseppe Rapelli, esponente della sinistra democristiana, assieme a Randolfo Pacciardi (in procinto di abbandonare il Partito repubblicano per i contrasti con Ugo La Malfa, favorevole al centrosinistra), a Gianni Baget Bozzo (fondatore di «Ordine civile», che auspicava un fronte anticomunista che andasse dalla Dc al Msi: «Tutto ciò che si oppone al comunismo, in quanto si oppone al comunismo, ha ragione di bene», scriveva), al direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, ai missini Giulio Caradonna e Pino Romualdi. Scalfaro si compiacque del fatto che potessero lì «parlare insieme uomini che forse quattordici anni fa (quando era stata fondata la Repubblica, ndr) si poteva pensare fossero su posizioni inconciliabili». Garante del dialogo, secondo il futuro presidente della Repubblica, sarebbe stato il Vaticano, alle cui direttive i cattolici avrebbero dovuto conformarsi senza riserve: «Come figli devoti della Chiesa, quando la Chiesa ha parlato, se ne prende atto e si ubbidisce», disse Scalfaro. Ancor più avrebbe alzato i toni Enzo Giacchero, un altro parlamentare dc (che anni dopo approderà all’estrema destra), il quale aveva esortato a «combattere» nel nome dell’impegno «che ci deriva dalla morale e dalla dottrina della Chiesa». «Era chiara», scrive Panvini, «la strumentalità di questa retorica, ancor più evidente dato che il richiamo alla liceità dell’uso della forza alludeva non tanto alla ribellione, quanto, piuttosto, a un’azione di repressione preventiva da parte dello Stato di fronte all’avanzare delle sinistre nella società».
La Dc si irritò. E già il 27 maggio sul «Popolo» (organo democristiano) Raniero La Valle sconfessò quel convegno che, a suo giudizio, aveva fatto notizia solo per il fatto, sgradevole, di aver «mischiato» Sturzo con «Il Borghese». Ma quando poi si ebbero le manifestazioni e la reazione a fuoco della polizia destinata a provocare la caduta del governo Tambroni, «L’Osservatore Romano» pubblicò un articolo dal titolo Il Governo intende impedire che la piazza si sostituisca al Parlamento . Con un’«asettica cronaca» che, scrive Panvini, «poteva essere fraintesa e letta come indizio di una neutralità benevola del Vaticano nei confronti di Tambroni». Al momento delle manifestazioni di Genova, però, alcune federazioni democristiane avevano permesso l’afflusso dei propri militanti nel capoluogo ligure e lo stesso avevano fatto molte sezioni delle Acli e della Cisl. Ciò che generò nell’universo cattolico un grande disorientamento, per il quale due parti di quel mondo si sospettavano l’un l’altra di essere inconsapevolmente finite sotto la guida dei comunisti o dei neofascisti.
Sospetti destinati a perpetuarsi nel tempo. Nell’ottobre del 1961 il cardinale Alfredo Ottaviani, a capo della Congregazione del Sant’Uffizio e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, compì un viaggio in Spagna nel corso del quale rinnovò l’appoggio entusiasta della Chiesa al regime franchista. Nell’occasione il cardinale esaltò il ruolo avuto da Francisco Franco alla fine degli anni Trenta quando — sono parole sue — «furono rigettate dal sacro suolo della Spagna le orde devastatrici di ogni ordine cristiano e di ogni umana dignità e libertà». «Dirò di più», aveva proseguito l’illustre porporato, «con quelle gesta eroiche fu salvata non soltanto la Spagna, ma tutto l’Occidente cristiano dalla minaccia della schiavitù che veniva dall’Oriente… Fu dunque santa crociata che frenò in Occidente l’impeto assaltatore dei rossi, nemici della Croce di Cristo… Dobbiamo alla Spagna la prima resistenza, non soltanto armata, ma interiore e di pensiero a queste civiltà anticristiane che han tentato via via di abbattersi sul cristianesimo». Per poi concludere con parole di riconoscenza all’uditorio spagnolo: «La Chiesa sa cosa sono i vostri cuori; la Chiesa ha veduto con che eroica fortezza avete resistito a chi voleva strappare dal vostro cuore Cristo e dalla vostra terra la Croce». Tutto ciò, fa osservare Panvini, nel terzo anno di pontificato di papa Roncalli (il quale però veniva già allora indicato come nemico del cardinale Ottaviani). E qualche mese dopo l’enciclica giovannea Mater et magistra (luglio 1961), pur ribadendo la condanna dei regimi e delle ideologie socialiste, denunciava i danni del colonialismo e l’egoismo dei ceti privilegiati, lasciando intuire che la Chiesa a modo suo stava aprendo alle novità della decolonizzazione. Ancor più esplicita, in direzione di un’apertura di dialogo con i Paesi comunisti, sarebbe stata la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam , emanata il 6 agosto del 1964. In tal senso Paolo VI può essere considerato il vero Pontefice della svolta. Ma né quelle encicliche né i lavori del Concilio Vaticano II furono tali da dissipare i sospetti — da parte di quei settori del mondo cattolico che andavano avvicinandosi alla nascente sinistra extraparlamentare — che la Chiesa stesse scivolando a destra. Sul versante opposto encicliche e Concilio provocavano, per reazione, una radicalizzazione della destra cattolica, destinata ad alimentare altrettanti sospetti di «scivolamento» nei settori contrapposti.
Assai interessante, nello studio di Panvini, è la descrizione del contesto internazionale in cui si svolse questo complicato dibattito. Con un riferimento piuttosto esplicito alla guerra d’Algeria. Nell’oltremare francese era in atto una lotta di liberazione che nel 1962 avrebbe portato il Paese all’indipendenza. Ma che, nel frattempo, aveva prodotto, in Algeria, forme di terrorismo e di repressione particolarmente cruente. Nonché, in Francia, il colpo di Stato gollista del 1958. Di particolare rilievo fu a quei tempi la legittimazione teologica, compiuta dalla Cité catholique, delle brutali pratiche dell’esercito francese in Algeria, che costituì «uno dei principali punti di raccordo» tra questo movimento e gli ambienti militari più oltranzisti, decisi a mantenere il controllo sulla colonia. La Cité catholique, assieme alla rivista «Verbe», era stata fondata nel 1946 da Jean Ousset, già dirigente dell’Action française. Il gruppo propugnava «la difesa dell’Europa dalla minaccia del comunismo ateo che si era alleato all’islam per abbattere l’ultimo baluardo della cristianità occidentale in Nord Africa», di modo che le «quinte colonne sovietiche» in Francia avessero l’occasione «di “scattare” per prendere il potere». Secondo Ousset, «minacciando le fondamenta dell’ordine cristiano, i comunisti commettevano un crimine superiore a ogni altro e per questo motivo contro di loro ogni mezzo di repressione era lecito, compresa la tortura». Tesi che suggestionarono fortemente il mondo cattolico francese. E che legittimarono, come si è detto, gli ultras del colonialismo.
A farne le spese fu monsignor Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri, sostenitore della coabitazione tra francesi e algerini e, in quanto tale, oggetto di duri attacchi da parte degli estremisti che si erano dati come simbolo il Sacro cuore rosso sormontato da una croce. Interessante è la ricostruzione dell’influenza della Chiesa (o di parte di essa) sulle motivazioni ideali del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry. Nel parlò lui stesso nel 1963, prima di essere fucilato per aver attentato, nell’agosto dell’anno precedente, alla vita di Charles de Gaulle: «Noi non siamo dei sovversivi e abbiamo agito per salvare delle vite umane innocenti, sacrificate da un potere tirannico. San Tommaso d’Aquino ci dice che ad essere sedizioso e ad alimentare nel popolo le discordie e le sedizioni è il tiranno, dal momento che il regime tirannico non è giusto e non ha come fine il bene comune: sono perciò degni di lode coloro che liberano il popolo da un potere tirannico. Noi pensiamo che gli eminenti ecclesiastici che abbiamo consultato e che non ci hanno dissuasi dalla nostra azione non abbiano fatto altro che ricordarsi dei comandamenti divini, del principio e del diritto di legittima difesa e della morale tradizionale insegnata dalla Chiesa».
Finita o in via di conclusione la guerra d’Algeria, nel mondo cattolico questo genere di considerazioni continuarono ad avere una qualche eco. Non irrilevante. Come anche, però, quelle di segno opposto. Il 25 aprile del 1961, il presidente dell’Eni, ex comandante partigiano cattolico, Enrico Mattei commemorava l’anniversario della Liberazione con queste parole allusive all’azione del Fronte di liberazione algerino: «Se allarghiamo lo sguardo ad altre terre, vediamo popoli al di là dei mari che ancora oggi lottano per la libertà. Noi ci sentiamo ad essi vicini, appunto perché la nostra esperienza ci ha reso particolarmente sensibili a questo dovere di comprensione umana. Dovunque un’invasione sia tentata, dovunque piccoli tiranni o grandi potenze minaccino di soffocare la libertà umana, la nostra reazione non può essere che di condanna». Condanna della Francia, beninteso. Poi Mattei entrava nello specifico e proponeva un paragone tra i «resistenti» italiani e quelli di Algeri: «Essi sono ribelli, o amici partigiani, è vero, come lo siamo stati noi quando fummo costretti a ribellarci contro la ingiustizia, la prepotenza e la sopraffazione, per la sacrosanta difesa dei diritti umani, e noi siam convinti che quando un popolo, bianco o di colore, combatte con tutta l’anima per la sua libertà, Dio è suo alleato». Questo, sei mesi prima delle parole di cui si è detto, pronunciate dal cardinale Ottaviani, di entusiastico elogio dell’esperienza franchista in Spagna. E sette mesi prima che su «La Vita cattolica», un periodico della diocesi di Cremona, si proponesse (il 28 novembre 1961), una maliziosa comparazione tra le tattiche sperimentate dai comunisti nella Resistenza e quelle adottate dai guerriglieri asiatici: «Ad essi (i partigiani del Pci, ndr ) risale la responsabilità di massacri di inermi popolazioni colpite dalla rabbia vendicativa delle SS tedesche aizzate con ben premeditate azioni di guerra dai rossi… Lo stesso metodo è stato attuato in Corea, in Cina, nel Laos, nel Vietnam». Come si vede, dal mondo cattolico venivano indicazioni tra loro fortemente contraddittorie.
Nel 1964 il segretario nazionale di Pax Christi, René Coste, promosse un convegno sul tema della coscienza cristiana al cospetto delle «nuove tecniche della sovversione comunista». «La Civiltà Cattolica» ne scrisse una recensione entusiasta. «Per Pio IX e Leone XIII», sosteneva la rivista dei gesuiti, «l’uso della violenza per rovesciare un regime, anche se tirannico e lesivo della legge naturale e dei diritti fondamentali della persona umana, era da intendersi come proibito dalla morale; per altri, invece — a capo della schiera sta san Tommaso d’Aquino —, a certe condizioni che si possono enucleare dal caso della legittima difesa, era da ritenersi legittimo. A questa opinione diede il suo autorevole suffragio Pio XI, nella lettera all’episcopato messicano del 28 marzo 1937… Il caso particolare allora discusso può, senza dubbio, presentarsi anche al tempo presente». Con il che ad ogni evidenza si intendeva proiettare quella presa di posizione di papa Ratti sulla situazione italiana degli anni Sessanta.
Nel 1964, il responsabile del dipartimento di Agitazione e propaganda dell’Urss, Leonid Illicev, annunciò una campagna antireligiosa accompagnata dall’istituzione nelle università di cattedre di ateismo. Paolo VI, che pure — come si è detto — fu il Papa che arginò la deriva più conservatrice della Chiesa, a quel punto provò a raffreddare anche la politica del dialogo con il mondo comunista. Ma quei cattolici che si erano avviati per i sentieri dell’interlocuzione con la sinistra proseguirono spediti il loro cammino: il loro giudizio sull’Unione Sovietica, fa notare Panvini, «venne formulato in parallelo a una serrata critica della democrazia liberale, accusata di essere subalterna ai poteri economici». Una critica «così viscerale da spingerli a una fondamentale omissione… Per quanto imperfetti e contraddittori, infatti, i sistemi democratici garantivano, comunque, i diritti politici e civili ai quali di fatto venne, invece, anteposta la “libertà sostanziale” dei regimi comunisti, considerata superiore alle libertà formali presenti in Occidente».
Siamo a metà degli anni Sessanta e inizia a delinearsi l’«album di famiglia» cattolico. Assai diverso da quello comunista di cui avrebbe parlato Rossana Rossanda. Nel senso che l’album cristiano prendeva forma in contrasto a una supposta deriva della Chiesa avvertibile nella confusione che caratterizzò la transizione da Pio XII a Giovanni XXIII e, successivamente, a Paolo VI.
Di modelli ne venivano da ogni parte del mondo. In Francia l’abbé Pierre, frate cappuccino, già cappellano nella Resistenza, fondatore della comunità Emmaus, difensore dei Tupamaros uruguayani e amico dei fondatori delle Brigate rosse, fu il primo a prendere in considerazione la via della lotta armata. Qualcuno ha sostenuto che sia stata, quella dell’abbé Pierre, un’iniziativa che faceva riferimento a «centrali internazionali della provocazione». Ma anche riguardo alla tesi che la scuola di lingue Hyperion, riconducibile all’entourage dell’abbé Pierre, fosse legata alla Cia o ai servizi segreti di mezzo mondo (formulate da Giovanni Pellegrino, Rosario Priore e Giovanni Fasanella), secondo Panvini, si tratta «di congetture e di interpretazioni basate su una documentazione spesso parziale e lacunosa, che per quanto suggestive sono in gran parte da provare».
In Italia fa scalpore a metà degli anni Sessanta il sostegno offerto dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira (e da ampi settori della sinistra Dc) all’«eroica lotta dei vietcong» contro l’imperialismo statunitense. Altro personaggio di riferimento diviene padre Camilo Torres, guerrigliero dell’Esercito di liberazione colombiano caduto in combattimento nel febbraio del 1966, poco dopo aver lasciato l’abito talare ed essersi dato alla clandestinità. Nel 1966 la rivista francescana «Frères du monde» propone alla Chiesa di condannare la violenza «oppressiva» del capitalismo e di solidarizzare con quella «liberatrice» dei movimenti di guerriglia. Nel febbraio del 1967, prima che sia emanata l’enciclica Populorum progressio , si tiene in Francia la XIX Settimana sociale degli intellettuali cattolici, nel corso della quale l’arcivescovo di Parigi Pierre Veuillot denuncia la violenza insita nell’«ordine economico e sociale» delle democrazie, René Rémond quella che «giunge a degradare l’altro a rango di mezzo o di strumento in un piano che lo assorbe e lo ingloba» e il direttore di «Esprit» Jean-Marie Domenach punta l’indice contro la violenza «subdola, quella che si nasconde dietro l’abitudine, l’ordine, la galanteria dei salotti, l’anonimato degli uffici». Un insieme così suggestivo che nel giugno del 1967 Flaminio Piccoli (tra i più cauti dirigenti della Dc) poté scrivere su «La Discussione»: «Molti di noi se avessero l’occasione di entrare in intimo contatto con il mondo latinoamericano, sarebbero tentati di diventare guerriglieri essi stessi, come in realtà altre persone coscienti hanno fatto… Ogni collaborazione con le attuali classi dirigenti latinoamericane è inutile e assume l’apparenza di colpevole complicità; i cattolici del resto non sono nuovi alla lotta di opposizione ai regimi dispotici, la resistenza europea nel corso dell’ultima guerra ne è stata la prova migliore… È vero che in questo caso manca la premessa di un’azione bellica cui opporsi; i cattolici hanno però il dovere di opporsi a un’aggressione sociale quasi altrettanto violenta». E sono trascorsi appena sei anni dagli incondizionati elogi — di cui abbiamo detto — del cardinale Ottaviani al regime franchista.
Adesso è il momento in cui Pedro Arrupe, preposito generale della compagnia di Gesù, offre un’interpretazione assai ardita della Populorum progressio (marzo 1967); sono i giorni in cui 17 vescovi di Asia, Africa, America Latina ed Europa orientale sottoscrivono una lettera che invoca un maggior impegno della Chiesa per la giustizia sociale (settembre 1967); in cui si tiene una riunione di esponenti cattolici a Santiago del Cile, nella quale si spiega come la «violenza rivoluzionaria» sia in totale sintonia con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II (dicembre 1967); in cui a Montevideo si svolge il convegno latinoamericano dal titolo «Cristianismo y Revolución» (febbraio 1968); in cui a Medellín, in Colonia, si ha la terza assemblea plenaria della Conferenza episcopale latinoamericana, che dà il la alla teologia della liberazione (27 agosto-7 settembre 1968). In alcuni casi, come in Brasile, frati domenicani prendono le armi. E dall’America Latina questi concetti e queste parole d’ordine rimbalzano rapidamente in Europa, soprattutto in Italia. «Colpisce», scrive Panvini, «il modo repentino con cui molti ambienti cattolici passarono dal sostegno alle pratiche e alle teorie della non violenza, all’ammissibilità della violenza rivoluzionaria». Praticamente all’epoca quasi soltanto Danilo Dolci, Carlo Cassola e i radicali di Marco Pannella tengono il punto. L’editoriale del settembre 1967 della rivista «Testimonianze» avanza espliciti dubbi sui metodi della non violenza così come erano stati pensati da Gandhi e da Martin Luther King, definendoli «poco utili al Terzo Mondo». Il 17 novembre 1967 inizia la grande stagione del movimento studentesco con l’occupazione a Milano della Cattolica. A Trento, nel febbraio del 1968, nove sacerdoti solidarizzano con gli studenti che occupano l’università, sostenendo che «la violenza prima e più colpevole è quella organizzata in sistema» e che «prima della collera dei poveri viene la sopraffazione dei ricchi». Nella stessa città, in marzo, lo studente Paolo Sorbi interrompe la predica di un sacerdote durante la messa e inaugura sul sagrato del Duomo i cosiddetti «controquaresimali». A Lecce accade qualcosa di analogo. La presenza di cattolici nelle manifestazioni studentesche e nelle leadership del movimento è ragguardevole. Persino i gruppi che si richiamano a don Giussani si lasciano contagiare. Ma non siamo ancora alla lotta armata. Qui torna in campo la figura di quel Corrado Corghi che abbiamo conosciuto come avversario, nel luglio 1960, del vescovo Socche. Corghi ha agito da agente di collegamento con gli irrequieti cattolici dell’America Latina, è diventato amico di Régis Debray, tra il 1967 e il ’68 è uscito dalla Dc. Il Pci guarderà a lui con cautela, il Psiup con grande apertura, Alberto Franceschini, uno dei primi brigatisti rossi, lo indicherà come un maestro. Corghi raccomanda ai ragazzi che si rivolgono a lui di seguire l’«imperativo evangelico»: «Noi cristiani siamo nati nella fede non per mediare tra i violenti e gli oppressi, tra i fascismi di ogni tempo e i torturati… noi siamo nati nella fede di Cristo per assumere tutte le responsabilità che ci vengono dalla nostra condizione di uomini di questo tempo storico… stai con l’oppresso e difendi l’oppresso, vivi nella condizione dell’oppresso se vuoi essere capace di lottare contro ciò che opprime». E il brigatista Franceschini dirà di aver raccolto questa esortazione. Anche se, scrive esplicitamente Panvini, «sarebbe errato indicare Corghi come il grande vecchio del terrorismo di sinistra». Dopo la deposizione e l’uccisione di Allende in Cile (11 settembre 1973), le compromissioni della Democrazia cristiana locale con il colpo di Stato di Pinochet fecero riapparire nelle menti di molti cattolici i fantasmi degli anni Sessanta. E si moltiplicarono le giustificazioni della lotta armata. A questo punto, scrive Panvini, «nonostante i distinguo, le specificazioni e le sottigliezze», si ha da parte di molti, come Giovanni Franzoni (ma non solo lui), «quasi una legittimazione indiretta di chi ha imbracciato le armi». Persino nei movimenti che fanno capo a don Giussani si ritrova qualcosa di «ambivalente».
Ma questa ambivalenza, che è poi di tutto il mondo cattolico, consentirà alla Chiesa (soprattutto per un ripensamento più profondo seguito all’uccisione, nel 1980, di Vittorio Bachelet) di essere pronta ad accogliere l’onda di riflusso dal terrorismo. C’erano stati già eventi particolarmente traumatici, primo tra tutti il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Ma Panvini sceglie come data simbolica per la chiusura di questa indagine il 13 giugno del 1984, e di nuovo una chiesa, stavolta a Milano. Quel giorno un giovane consegnò al segretario del cardinal Martini, don Paolo Cortesi, tre borsoni pieni di armi provenienti dall’arsenale dei Comitati comunisti rivoluzionari. La lettera che accompagnava quegli attrezzi di morte riconosceva alla Chiesa «un ruolo esemplare per comprensione e disponibilità» e al cardinale «l’opera di riconciliazione, prima umana e sociale che politica, indicata a tutti con altrettanti inequivoci gesti». Da quel momento molti ex della lotta armata tornarono a casa, scegliendo percorsi indicati loro da sacerdoti. Ma l’interessante storia di questo ritorno di terroristi, accolti dalle braccia della madre Chiesa, è ancora tutta da scrivere.

paolo.mieli@rcs.it