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 2014  febbraio 03 Lunedì calendario

LO STOPPER GENTILUOMO CHE FECE GOL A JASCIN “LA MIA VITA CON IL MAGO”


[Aristide Guarneri]

CREMONA
Il calcio di una volta lo riconoscevi anche dai nomi. La difesa dell’Inter: Tarcisio, Aristide, Giacinto, Armando. Come dire Burgnich, Guarneri, Facchetti, Picchi. Nella casa di Guarneri, dietro al Museo del Violino, c’è una saletta dei cimeli: coppe (vinte anche a tennis), medaglie, e una bella testa di bambino, in bronzo.
«L’ha scolpita mio padre Giuseppe, avevo otto o nove anni, la guerra era finita da poco e anche i tempi grami. Mio padre era scultore e pittore, con la passione della Grecia classica. Sarà per questo che mi ha chiamato Aristide, e una mia sorella Cnedia, un’altra Lia, che è già più normale. Era in gamba, mio padre. Ha scolpito il monumento ai Caduti di Cefalonia e qui al cimitero di Cremona, in quello che chiamano viale degli artisti, ci sono diverse opere sue, la più bella per me è quella di un suo amico cacciatore col cane al fianco. Con la guerra, la patria non chiedeva solo oro, andavano bene tutti i metalli, così per mio padre era difficile lavorare. Gli era rimasta una bici scassata e il cane da caccia. Usciva e tornava con un fagiano, una lepre, e così avevamo qualcosa da mettere sotto i denti. Non ero molto portato agli studi, ho smesso con la terza commerciale, davo una mano a mia sorella che aveva una bancarella di frutta e verdura al mercato. E giocavo a calcio, all’oratorio da ala destra, ero piccolino e veloce, poi sono cresciuto molto tra i 15 e i 16 anni. Così mi ha preso il Codogno come stopper, il mio ruolo naturale. E poi ho avuto fortuna. In un anno sono passato dalla Promozione all’Inter, passando per il Como, serie B».
Fortuna in che senso?
«Nel senso che se avessi avuto i soldi per comprarmi una macchina, forse sarei rimasto al Como tanti anni. Mi spiego: a Como l’allenatore era Lamanna, un argentino che teneva molto alla disciplina. Io e altri arrivavamo a Como in treno, o in corriera. La patente ce l’avevano solo in tre e Lamanna il venerdì
prima di ogni partita si faceva dare le patenti per evitare che quei giocatori andassero a far baldoria, magari portandosene appresso altri. Sì, perché a Como qualche tentazione c’era: i grandi alberghi, le turiste. Un venerdì, al momento di consegnare le patenti, un mio compagno dice che l’ha dimenticata a casa, un altro che l’ha persa. Lamanna li lascia fuori per punizione e fa esordire due ragazzi. Uno ero io, terzino sinistro. Ed è come terzino sinistro che mi compra l’Inter. Esordio con la Spal: 8-0, cinque gol di Angelillo. Uno spettacolo, Angelillo: 33 gol in una stagione, è ancora record. Era dappertutto, come Di Stefano. Poi si è un po’ perso, ma quell’anno da solo valeva il biglietto».
Quando diventa titolare?
«Dopo un derby vinto dal Milan 5-3 con quattro gol di Altafini, che fece impazzire Cardarelli, il suo marcatore. Nello spogliatoio piangeva, metteva il magone a vederlo. In settimana Cappelli, l’allenatore, dice a Invernizzi: se ripresento Cardarelli, i tifosi mi mangiano. Domenica da stopper giochi tu. E lì, altro colpo di fortuna, Invernizzi dice: dottore, perché non prova Guarneri? È giovane, è veloce, è sveglio. Così sono entrato io, nel mio vero ruolo, e non sono più uscito».
Insiste molto sulla fortuna, mi pare.
«Veda lei. Esordio in Nazionale, 3-0 al Brasile in amichevole. Segno un solo gol in maglia azzurra, ma vale l’1-0 alla Russia del grandissimo Jascin. Eccolo lì, il pallone, son riuscito a salvarmelo. Azione di Mazzola sulla sinistra, mi porto in area perché penso che crossi alto, invece s’inventa un’azione in slalom e la mette in mezzo all’area rasoterra, più o meno all’altezza del dischetto del rigore. Io arrivo di corsa e tiro forte rasoterra, di mezzo collo destro. Palla vicino al palo, Jascin non può farci nulla. Era la prima partita dopo la Corea. E comunque io i gol dovevo impedirli, più che segnarli. Non andavo quasi mai avanti nemmeno sui corner a nostro favore, perché Jair aveva la fissa di segnare direttamente dall’angolo, quindi era inutile».
La chiamavano lo stopper gentiluomo, giusto?
«Sì, e son cose che fanno piacere. Mai un’espulsione in serie A. E una sola quand’ero riserva dell’Inter, nel Trofeo Berretti. Mi tenevano, per svincolarmi ho dato una manata in faccia all’avversario. Espulso. Ho sempre pensato che si deve essere corretti, nel gioco. Io puntavo tutto sull’anticipo, e poi sapevo che se mi andava via l’uomo avrebbe trovato Picchi. La fortuna a volte crea anche la grandi squadre. L’Inter, per esempio: Picchi era un mediano, nella Spal giocava terzino destro. Facchetti era giudicato troppo alto per fare il terzino, allora le ali destre erano tutte piccoline, tipo Bertogna, e Giacinto all’inizio pativa. Ma poi sono stati gli allenatori avversari a dire all’ala di marcare Facchetti. Un difensore che segna una sessantina di gol senza tirare rigori o punizioni non s’era mai visto. Poi, naturalmente, il salto di qualità l’abbiamo fatto col Mago in panchina e con Suarez in campo».
Due cose sul Mago.
«Cambio totale di allenamenti. Eravamo abituati a giri di campo e saltelli, tre palloni nuovi, tre così così e gli altri sformati dalla pioggia. Il primo giorno col Mago ne abbiamo trovati trenta, tutti nuovi, di quelli bianchi e neri. Col Mago tutto era mirato alla velocità: di gioco, di reazione, di pensiero. Taca la bala, appunto. Sapeva caricarci. A Burgnich diceva: Gento è molto veloce, ma solo all’inizio, poi lo prendi. Il giorno della finale col Real mi ha detto: stai attento a Puskas, è come se avesse due mani al posto dei piedi, con la palla fa quello che vuole. L’unica volta che mi ha saltato ha centrato il palo. Fortuna. Ricordo poco prima dell’inizio Mazzola pallidissimo che guardava quelli del Real come fosse in chiesa. Suarez va da lui e gli fa: guarda che a questi non dobbiamo chiedere l’autografo, dobbiamo giocarci e batterli. Con Herrera il nostro problema erano i ritiri: dal venerdì alla domenica compresa. E l’alimentazione: a pranzo riso e bistecca, o pollo. A cena verdura bollita o minestrone di verdura e pollo, o bistecca. Un bicchiere di vino tollerato a pranzo, a cena no».
Dura, eh?
«Ma grazie a Picchi ci si organizzava nel pomeriggio con panini che nascondevamo in camera. Solo una volta ci siamo ribellati al ritiro, quando siamo tornati dal Sudamerica come campioni del mondo. Il mago ci voleva portare in ritiro perché il mercoledì c’era una partita. Picchi è andato da Moratti e ha ottenuto l’annullamento del ritiro. Solo che si è dimenticato di dirlo a Herrera: in ritiro c’erano solo lui e i massaggiatori».
C’era un segreto in quell’Inter?
«In campo ci aiutavamo senza gelosie. Fuori non so. Penso che Suarez e Corso non si amassero molto, perché Mariolino poteva sbagliare venti passaggi di fila e restava l’idolo dei tifosi, ma se Luisito ne sbagliava uno lo fischiavano. Pensi che quando Jair è arrivato, giovanissimo, pativa la nostalgia, non gli piaceva il clima, il cibo, la città. Allora Facchetti se l’è preso in casa non so quanto tempo, Jair s’è ambientato ed è diventato una colonna nel gioco dell’Inter. Oggi quanti farebbero come Giacinto?».
Gli avversari più difficili?
«Altafini di sicuro: forte, veloce, tecnico. Ma anche Harald Nielsen. O quelli che non stavano mai fermi, come Maraschi. L’elenco sarebbe lungo: Vinicio, Manfredini, Da Costa, Torres, Albert, Asparukov».
Perché una volta avevamo tanti buoni difensori e adesso no?
«Molti dicono che dipenda dalla zona, secondo me no. La zona richiede più attenzione. Forse dipende dai fondamentali. Ai miei tempi era bravo chi anticipava l’attaccante, o saltava più in alto, adesso tra blocchi e cinture credo ci sia meno tecnica. Comunque, io dal calcio sono fuori. Ho tre figli, sei nipoti, sempre la stessa moglie, Lucia, sposata nel ‘68. Luna di miele record: una notte a Venezia. E poi subito a Roma, per gli europei, vinti».
La Corea?
«Scintillanti amichevoli d’avvicinamento, pessima sistemazione a Durham, in una scuola, con camerette singole che sembravano celle di frati. E Fabbri da subito divide titolari e riserve. Credo che volesse vincere tutte le partite. Vinciamo col Cile, con la Russia basterebbe dare un po’ di riposo a qualcuno. Così diventa decisiva la partita con la Corea, l’unica che ho giocato. Bulgarelli recuperato troppo in fretta: si fa male e restiamo in dieci. Almeno un pari lo avremmo meritato. Ma quel giorno a Middlesbrough la fortuna guardava da un’altra parte».