Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 03 Lunedì calendario

SCACCHI – [“PERDERE NON FA PARTE DEL GIOCO” LA REGOLA D’ORO DEL BABY-CAMPIONE]


Fin da bambino, il neo campione del mondo di scacchi Magnus Carlsen colpiva non solo per la sua sorprendente memoria e per la straordinaria prontezza del suo intelletto, ma anche per la sua autonomia, come racconta il padre Henrik Carlsen: era uno che faceva di testa sua. Anche se a molti il 23enne norvegese può sembrare scontroso, il suo potrebbe essere solo un modo per difendersi dalla baraonda.
Prima di lei, i punti di riferimenti erano campioni come Bobby Fischer e Garri Kasparov; quest’ultimo ha dominato la scena per quasi 20 anni. Pensa di riuscire a rimanere il numero 1 mondiale per altri due decenni?
«Sicuramente non farò come Fischer, che si è ritirato subito dopo aver vinto il titolo. Il resto, lo vedremo. Giocherò finché sarò motivato; e per rimanerlo, penso che i buoni risultati siano importanti. Se tutto andrà bene, forse riuscirò a mantenere una posizione dominante nel lungo periodo. In ogni caso sarà dura; ma a me piacciono queste sfide».
Per lei il titolo di campione comporta un impegno particolare?
«Beh, in ogni caso cerco di impegnarmi, come ho sempre fatto, per la diffusione del gioco degli scacchi, e in particolare perché si sperimenti la sua introduzione nei programmi delle scuole. Al di là di questo c’è una sola cosa che posso fare per la mia disciplina: giocare bene, come in genere cerco di fare».
In Norvegia c’è stato un vivace dibattito tra chi considera il gioco degli scacchi come uno sport e chi contesta questa definizione. Ha preso posizione in questa controversia?
«Non sono portato a questo tipo di dibattiti. La questione non mi sembra molto importante. Il gioco degli scacchi ha una sua propria valenza».
Le capita spesso di ripensare al suo trionfo in India ?
«No, non molto spesso. Preferisco guardare in avanti, ai prossimi tornei».
Anche ai mondiali di quest’anno?
«Certo – benché non si sappia ancora chi sarà lo sfidante. L’esperienza in India è stata esaltante; e spero di poter vivere di nuovo qualcosa di simile».
Nelle gare tutto verte sull’esito finale: o si vince, o si perde. Quanto pesa per lei una sconfitta?
«Naturalmente non mi piace perdere. E penso che non ci si debba fare l’abitudine. Se vuoi essere uno dei migliori non puoi accettare l’idea che la sconfitta faccia parte del gioco».
Quante vittorie le servono per digerire una sconfitta?
«Mi basta vincere una volta e sono di nuovo felice».
Al di là del risultato finale, cos’è che le dà più soddisfazione in una partita?
«Purtroppo, alla fine resta solo la gioia di aver vinto. A volte però riesco a fare qualcosa di creativo: una mossa che mi pare degna di un artista. Sono queste le vere soddisfazione».
Quando scopre, ad esempio, un nuovo modello di posizione?
«Sì, sono momenti esaltanti! Purtroppo non capitano spesso».
Ma è accaduto a Chennai, alla sua ultima vittoria?
«Beh, lì contava il risultato, più della qualità del gioco».
Per lei la qualità è importante?
«Sì, molto. Per me un’imprecisione è grave quasi quanto un errore».
(© Tages-Anzeiger Traduzione di Elisabetta Horvat)