Nicholas Kristof, la Repubblica 3/2/2014, 3 febbraio 2014
COSÌ WOODY ALLEN ABUSÒ DI ME AVEVO SETTE ANNI NON PERDONATELO
ALCUNE settimane fa, quando alla cerimonia dei Golden Globe Woody Allen ha ricevuto un riconoscimento alla carriera, si è acceso un dibattito che verte sull’opportunità di rendere onore a un uomo che è sì un grandissimo artista, ma anni fa è stato anche accusato di molestie sessuali su bambini. I difensori di Allen giustamente hanno fatto notare che il regista respinge le accuse, non è mai stato condannato e dovrebbe essere presunto innocente. La gente è intervenuta esprimendosi pro o contro, ma a non essere stata ascoltata è Dylan Farrow, 28 anni, scrittrice e artista che Allen è accusato di aver molestato sessualmente.
Dylan, figlia adottiva di Allen, oggi è sposata, vive in California sotto un’altra identità e mi ha detto di essere rimasta traumatizzata per oltre vent’anni dall’accaduto. L’anno scorso, assai tardi, le è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress. Quando ha sentito che ad Allen era stato assegnato il Golden Globe, dice si essersi raggomitolata sul letto e di essere scoppiata a piangere
in modo isterico.
MENTRE tutti commentavano la notizia, anche lei ha deciso di intervenire. (È giusto che vi dica che sono amico di sua madre Mia e di suo fratello Ronan, ed è così che Dylan si è messa in contatto con me.) Ha scritto una lettera che ho postato nella sua forma integrale sul mio blog nytimes. com/ontheground. Ho cercato per parecchi giorni di mettermi in contatto con Allen, ma lui si è rifiutato di commentare in modo ufficiale.
Dylan scrive: «Mi ha tormentato per anni che lui l’abbia passata liscia per quello che mi aveva fatto. Ero trafitta dal senso di colpa, per avergli permesso di avvicinare altre bambine. Ero terrorizzata
all’idea che un uomo mi toccasse. Ho sviluppato un disordine alimentare. Ho iniziato a infliggermi tagli da sola. Questo tormento è stato aggravato da Hollywood. Tutti, tranne poche magnifiche persone (i miei eroi), hanno fatto finta di non vedere. La maggior parte della gente ha ritenuto più facile accettare l’ambiguità della situazione, affermare “Chi può dire che cosa è successo veramente?”, fingere che non ci fosse niente di male. Nelle cerimonie di conferimento dei premi, gli attori lo esaltavano. I network televisivi mandavano in onda la sua immagine. I critici ne parlavano nelle riviste. E ogni volta che su un poster, una maglietta, in televisione vedevo il volto di chi aveva abusato sessualmente di me, tutto quello che riuscivo a fare era soltanto nascondere la mia sensazione di panico, finché non trovavo un posto nel quale rinchiudermi da sola e crollare».
Nel 1992 esplose un’enorme tempesta in seguito all’accusa di «molestie inappropriate» — anche se ciò di cui parla Dylan è di gran lunga peggio: una violenza sessuale vera e propria. All’epoca lei aveva sette anni. Ci furono accuse e controaccuse. Un gruppo di psichiatri si schierò dalla parte di Allen, un giudice scelse di stare dalla parte di Dylan e di sua madre. Un procuratore del Connecticut affermò che c’erano prove sufficienti a procedere a un’accusa penale nei confronti di Woody Allen, ma aggiunse che avrebbe lasciato cadere il caso per “risparmiare” Dylan.
Nessuno di noi può essere sicuro dell’accaduto. Il parametro che si adotta per mandare qualcuno in prigione è ritenerlo «colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio». E lo standard per rendere onore a qualcuno non dovrebbe essere che come minimo quel qualcuno deve essere irrefutabilmente esente da ogni accusa e, quindi, meritevole di onore?
Malgrado ciò, i Golden Globe si sono schierati dalla parte di Allen, di fatto accusando Dylan di aver mentito o di non avere voce in capitolo. Questo è il vero messaggio che troppo spesso le star del mondo del cinema, della musica e dello sport fanno pervenire alle vittime di abusi.
«Lo so, tutto si riduce alla mia parola contro la sua» mi ha detto Dylan. «Per me, invece, la faccenda è chiarissima, perché io ero lì».
Le ho chiesto perché ha deciso di parlarne adesso. Lei mi ha risposto che ci tiene a mettere le cose in chiaro e infondere coraggio alle altre vittime. «Ho pensato che se non avessi detto niente, in punto di morte lo avrei rimpianto».
Queste sono faccende estremamente complesse e delicate, e una certezza assoluta non c’è mai. Tuttavia, ogni anno centinaia di migliaia di bambini e di bambine subiscono abusi sessuali e meritano sostegno e sensibilità. Quando le prove sono controverse, è davvero indispensabile balzare in piedi e acclamare un presunto molestatore?
Voglio lasciarvi con un’idea della risolutezza di Dylan, che dichiara: «Questa volta mi rifiuto di crollare. Per troppo tempo l’approvazione di cui gode Woody Allen mi ha messa a tacere. Mi sono sentita rimproverare personalmente, come se i premi e i riconoscimenti fossero un modo per dirmi di stare zitta e andarmene altrove. Ma i sopravvissuti di abusi sessuali che mi hanno contattata — per darmi il loro sostegno e condividere la paura di farsi avanti per denunciare i molestatori, di sentirsi accusare di essere bugiardi, di sentirsi dire che ciò che ricordiamo non è la verità — mi hanno dato una ragione in più per non tacere. Se non altro, così anche gli altri sanno che non devono più tacere. Oggi mi considero fortunata. Sono felicemente sposata. Ho il sostegno dei miei meravigliosi fratelli e sorelle. Ho una madre che dentro di sé ha scoperto una riserva inesauribile di forza che ci ha salvati dal caos che ha travolto la nostra casa per opera di un predatore sessuale. Altri, però, sono tuttora segnati, vulnerabili, e lottano per trovare il coraggio di uscire allo scoperto e dire la verità. Il messaggio che manda Hollywood per loro è molto importante».
Ecco una cosa su cui tutti noi, anche chi non è una star, può riflettere.
©The New York Times La Repubblica Traduzione di Anna Bissanti