Vittorio Sabadin, La Stampa 4/2/2014, 4 febbraio 2014
SONO VIVO GRAZIE A SQUALI E TARTARUGHE
Si può sopravvivere per 13 mesi alla deriva nel Pacifico se si crede in Dio, si conosce bene il mare e se si è disposti a mangiare e bere quello che si trova. E se si è abbastanza forti da non impazzire. Josè Salvador Alvarenga, il pescatore salpato dal Messico il 21 dicembre del 2012 per una giornata di caccia agli squali e approdato pochi giorni fa a 15 mila chilometri di distanza, nelle isole Marshall, ha raccontato la sua spaventosa odissea alle persone che a Majuro si stanno prendendo cura di lui. L’incredibile viaggio che ha compiuto è senza precedenti: di tutti i naufragi conosciuti da quando l’uomo ha imparato a navigare, nessuno è durato così a lungo e ha coperto una tale distanza nel più grande e desolato oceano della Terra.
José Salvador non rammenta tutto bene e le sue condizioni psicologiche sembrano molto più gravi di quelle fisiche. Avrebbe voluto chiamare casa, ma non ricorda più il numero di telefono, né il nome della città dalla quale viene. Ha una figlia nel Salvador e tre fratelli negli Stati Uniti. Lavorava in Messico per un certo Willie, pescando squali per meno di un dollaro al chilo. Il 21 dicembre era uscito in mare con la sua barca in vetroresina di 7 metri, insieme con Ezekiel, il ragazzo che lo aiutava e che aveva forse 15, forse 18 anni. Il mare prometteva bene, ma non durò a lungo. Una burrasca portò la barca al largo e quando il vento si calmò e venne l’ora di rientrare il motore non si accese. Non ci fu niente da fare. Non c’era terra in nessuna direzione o barche in vista che potessero soccorrerli. Andarono alla deriva verso Ovest, dove portano le correnti a quella latitudine del Pacifico. José Salvador ha raccontato a Tom Armbruster, l’ambasciatore americano alle Marshall, che parla spagnolo: «Ezekiel è morto dopo quattro settimane, vomitava il cibo crudo. Ho buttato il suo corpo in mare. Mi è spiaciuto molto e per alcuni giorni sono stato male. Ho pensato di uccidermi, ma non ci sono riuscito, perché avevo paura del dolore che avrei provato morendo».
Josè aveva un coltello e un piccolo riparo dentro al quale proteggersi dal sole. «Mangiavo pesce crudo, uccelli che catturavo con le mani quando si posavano per riposarsi. Prendevo le tartarughe che venivano a galla per respirare e ne bevevo il sangue. Ho bevuto anche la mia urina». Ha mangiato pure qualche squalo, perché sapeva come prenderli, ha detto: metteva un braccio in acqua come esca e li afferrava per la coda quando si avvicinavano per azzannarlo.
Il tempo che non passava è stato il peggior nemico. «Non c’era data, non c’era ora – ha raccontato - solo il giorno e la notte. Pregavo Dio e ora lo ringrazio, così come ringrazio gli uccelli e i pesci che ho catturato e mangiato. Pensavo ai miei parenti, che mi credevano morto e sognavo di tornare da loro e dire: ecco, vedete, sono io, sono qui». Josè ricorda solo due giorni di tempesta e per il resto un mare sempre calmo, sempre uguale e deserto, un incubo quotidiano durato quasi 400 giorni. L’ultimo giorno era iniziato come gli altri. «Mangiavo pesce crudo quando ho visto degli alberi spuntare dal mare. Ho pensato: sono vivo, sono vivo, non posso crederci. Sulla spiaggia c’erano due donne che si sono messe a urlare. Non avevo più abiti addosso, solo uno straccio che una volta erano state le mie mutande».
Josè è approdato nell’atollo di Ebon. Aveva una folta barba rossa e i capelli lunghi, seccati dal sole e dalla salsedine. Ha chiesto un po’ d’acqua e poi un po’ di pane, il cibo che gli è mancato di più, perché i suoi genitori sono panettieri. Il sindaco di Ebon, dall’unico telefono dell’isola, ha chiamato la capitale Majuro e l’incredibile storia del naufrago è finita su tutti i giornali del mondo.
C’è chi non gli crede. Il ministro degli esteri delle Marshall, Gee Bing, ha detto che il suo aspetto e le guance paffute, quando è approdato, non erano quelli di chi ha passato 13 mesi alla deriva. Ma i medici ribattono che in simili situazione è normale che il corpo si gonfi e Josè, 35 anni, ha potuto anche contare sul fisico di un pescatore di squali. Erik Van Sebille, oceanografo australiano, ha confermato che le correnti dal Messico portano alle Marshall, in un tempo che va da 18 a 24 mesi, ma 13 mesi sono possibili. Il sangue di tartaruga è l’equivalente di una bistecca. E poi ci sono dei precedenti: altri tre pescatori messicani, Lucio Rendon, Salvador Ordonez e Jesus Eduardo Vivand, andarono alla deriva nel 2006 per 9 mesi, percorrendo 10 mila chilometri fino quasi all’Australia. Ordonez faceva una tacca ogni volta che catturavano una tartaruga. Ne aveva incise 103 prima che li salvassero.