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 2014  febbraio 03 Lunedì calendario

LA FARFALLA ARGENTINA


La globalizzazione, che dura almeno dagli anni novanta dell’ottocento (con una interruzione dal 1931 al 1970 del novecento), ci ha abituato alle crisi che affliggono periodicamente il pianeta. Per uscire da queste crisi la soluzione trovata dai governanti è stata quella di creare delle bolle speculative sui mercati finanziari o su quelli delle materie prime o degli immobili, che fanno aumentare il ritmo di crescita fino a quando esse non sboccano in una nuova crisi, che conduce a una stagnazione.

Essa può essere affrontata dando vita a un’altra bolla che induce un’altra temporanea accelerazione del tasso di crescita. Ma è una soluzione effimera perché il risparmio tende a crescere di più dei consumi e degli investimenti, riducendo la domanda effettiva sotto il livello necessario a raggiungere e mantenere la piena occupazione delle risorse.
Nel corso dei decenni abbiamo quindi visto politiche di espansione basate sull’inflazione della massa monetaria e sul crollo a zero dei tassi di interesse reali far ripartire la crescita dei risparmi, nei paesi più sviluppati, con conseguente surplus di investimenti e necessità di investire all’estero, per guadagnare tassi di interesse maggiori di quelli disponibili nei paesi ad economia matura. Le formiche dei paesi centro mandano dunque i propri soldi alle cicale dei paesi in via di sviluppo, allettati da bolle speculative sui prezzi di determinate materie prime e dai tassi di interesse maggiori.
Quando nei paesi del centro si comincia a credere che il perdurare della espansione monetaria possa indurre pericoli di inflazione o di eccessivo indebitamento pubblico, le banche centrali di quei paesi cominciano a rendere meno facile il denaro cominciando con l’annunciare di volerlo fare. Gli investitori all’estero sono così indotti a tornare a casa, i paesi che hanno finanziato la crescita coi fondi a breve provenienti dal centro del mondo entrano in crisi, costretti a ridurre investimenti privati e pubblici, mentre cercano con grande difficoltà di mantenere tassi di cambio elevati che favoriscono le importazioni e riducono il rischio di inflazione. Quando le cose si mettono particolarmente male, è possibile che qualcuno di tali paesi sia costretto a svalutare, mentre allo stesso tempo crollano le loro borse e le quotazioni dei loro titoli a reddito fisso, specie di quelli pubblici. Come nella Commedia del-l’Arte, questo copione ammette varianti, ma il canovaccio è sempre lo stesso.
Lo vediamo ripetersi in questi mesi, come esito di una politica di riduzione dell’espansione monetaria da parte prima dei paesi europei e, a partire da gennaio, anche degli Usa. Il canovaccio esige che ad essa corrispondano diffuse difficoltà nei paesi che beneficiavano delle esportazioni di capitale a breve dal centro. Ce ne sono cinque, che sono stati chiamati i cinque fragili, Turchia, India, Indonesia, Sud Africa e Brasile, ai quali forse vale la pena aggiungere la Russia e, per motivi idiosincratici, anche l’Argentina.
Il caso dell’Argentina è diverso dagli altri e la crisi che comincia ad attanagliarla di nuovo ha anch’essa fattezze molto peculiari. Infatti, proprio per la crisi nella quale terminò l’esperimento monetario del cambio fissato a quello del dollaro, concluso all’inizio del millennio, e per le misure prese dai governi argentini, culminate in una esclusione del paese dai mercati finanziari internazionali, l’Argentina non è stata destinataria di investimenti esteri a breve. Ciò malgrado la sua performance economica, specie a seguito della bolla delle materie prime agricole, che portò il Pil a raddoppiare. Da qualche anno tuttavia, anche l’economia argentina ha cominciato a perdere colpi. Il governo aveva cercato di far fronte ad una gigantesca svalutazione, prodotta dalla crisi del 2001, che aveva indotto una inflazione che è giunta al 30% annuo. Non si voleva rivalutare per mantenere la competitività e i guadagni degli esportatori. Il governo ha fatto allora ricorso ad un diffuso sostegno dei redditi più bassi e a controlli sui prezzi.
Una delle caratteristiche di quel paese, che lo rendono simile al nostro, è la vasta massa di lavoratori autonomi. Si aggiungono ad essa medi e grandi proprietari terrieri esportatori, portati ad evadere il fisco e in genere a frustrare tutti i tentativi di regolazione dei mercati e dei tassi di cambio. In Argentina i cittadini capiscono assai bene, per esperienza multi decennale, i significati delle oscillazioni dei cambi e dei prezzi, e sono capaci di difendersene, esportando capitali all’estero, negli Stati Uniti, nel vicino Uruguay e altrove. Gli esportatori argentini sono in grado, e lo stanno dimostrando in questi giorni, di sfidare le autorità mantenendo in dollari ed euro i proventi delle proprie esportazioni, ed esercitando quindi una pressione sul cambio che rassomiglia molto a quella che, contemporaneamente si verifica, ad esempio, in Turchia, anche se in quel paese gli investitori a breve sono specialmente stranieri. Sono quindi comuni le denunce della signora Kirchner e di Erdogan contro gli speculatori stranieri, ma nel caso argentino sono del tutto fuori luogo, perché il nemico in Argentina è in casa e parla portegno.
Coloro che, in Argentina, si occupano del governo economico del paese, credono di essere alla guida di un apparato in grado di gestire con successo complesse manovre, come la rinegoziazione del debito estero e i diffusi controlli dei prezzi e dei cambi adottati. Ma ben altra burocrazia dovrebbero avere a disposizione di quella che popola i ministeri argentini, assai meno corrotta e più leale al governo. L’operazione di tenere il cambio mentre i prezzi interni aumentano al trenta per cento sarebbe assai difficile anche per un paese scandinavo. Figuriamoci se si ha a che fare con una massa di evasori fiscali e sprezzatori delle regole civiche come gli argentini, che vedono un governo degno di loro come il vero nemico e cercano o di blandirlo con regalie e favori, o di ignorarlo o infine di combatterlo apertamente.