Marco Panara, Affari&Finanza 3/2/2014, 3 febbraio 2014
NON SOLO ELECTROLUX: LA CRISI IN 161 TAVOLI
Al ministero per lo Sviluppo Economico ci sono 161 tavoli aperti. Nel gergo burocratico-giornalistico si dice “tavolo”, in quello reale si dice dramma. Per persone che stanno per perdere il posto di lavoro e per imprese che soffrono, riducono, chiudono. I drammi non sono tutti uguali e se le persone coinvolte sono 120 mila (i dipendenti complessivi delle imprese per le quali sono in corso negoziati al Mise) quelle che rischiano il posto di lavoro sono un sesto del totale, circa 20 mila, e quelle che gli uomini del ministero contano di salvare sono almeno metà dei 20 mila a rischio. Nella migliore delle ipotesi quindi, quando questi tavoli saranno chiusi, 10 mila persone, oggi dipendenti a tempo indeterminato, non lo saranno più. E’ la parte nascosta dell’iceberg di cui la vicenda Electrolux è quella più visibile al mondo. Anzi un pezzo della parte nascosta, poiché non tutte le vertenze e le crisi finiscono al Mise, ci arrivano quelle delle imprese di dimensioni almeno medie e, tra queste, quelle che non riescono a risolvere il problemi in negoziati diretti con i sindacati e le istituzioni territoriali. Quei 161 tavoli del Mise, se non dicono tutto, tuttavia rivelano molto. I settori più colpiti sono elettrodomestici bianchi e relativa componentistica, siderurgia, telecomunicazioni, componentistica auto e moto, farmaceutico.
Le cause della crisi, a spanne, sono per il 20% i costi, per il 30% difficoltà finanziarie, per il 50% incapacità di reggere il contesto competitivo e tecnologico. Sullo sfondo, per tutti, ci sono la competizione internazionale, il crollo del mercato interno, la contrazione del credito. L’altra faccia della medaglia, quella che consente di sperare che i danni possano essere contenuti, è che in molti casi delle soluzioni si trovano. Negli ultimi 12 mesi 62 tavoli si sono chiusi positivamente salvando 12 mila posti di lavoro, negli ultimi due anni i posti di lavoro salvati arrivano a 20 mila.
Una goccia nel mare. Tra il 2007 e il 2012 l’industria manifatturiera ha perso oltre 750 mila occupati, il numero delle ore lavorate è diminuito del 16,7%, la produzione del 25%. Evidentemente c’è qualcosa (molto) che non va ed Electrolux ce ne rivela una parte: la struttura dei costi e la tipologia di produzioni. Electrolux prevede la chiusura di uno stabilimento dei quattro che possiede in Italia, 1.700 esuberi e una drastica riduzione del costo del lavoro per recuperare competitività in un settore, gli elettrodomestici bianchi, nel quale la concorrenza dei produttori turchi e asiatici (cinesi e coreani soprattutto) è diventata fortissima e la domanda nei paesi maturi è assai flebile. In particolare il costo del lavoro per le lavatrici prodotte a Porcia (lo stabilimento friulano a rischio chiusura) non regge il confronto con uno stabilimento omologo in Polonia, dove per un’ora lavorata bastano 8 euro contro i 24 euro del Friuli.
Quel piano, ovviamente, non piace a nessuno, per l’impatto sociale ma ancora di più perché, se realizzato, spingerebbe il paese su una china pericolosissima, quella della competizione impossibile sul costo del lavoro con i paesi di nuova industrializzazione. Poiché c’è sempre qualche paese nel quale i costi sono più bassi quella è una competizione che non potremmo mai vincere, ma anche solo tentarla sarebbe un errore per almeno due ragioni: la prima è che le imprese, fondamentali per creare ricchezza, creerebbero povertà (lavoratori poveri); la seconda è che ci allontanerebbe dall’obiettivo corretto da perseguire, ovvero aumentare l’efficienza dei processi e il livello delle produzioni. Tornando a Elettrolux, la sopravvivenza nel lungo termine dello stabilimento di Porcia non è legata a quanto meno rispetto ad adesso costerà il lavoro ma a cosa si sarà capaci di produrre e con quale organizzazione. Probabilmente non più lavatrici di livello medio, che hanno una tecnologia base e margini bassissimi (ovvero un prodotto per il quale la competizione è essenzialmente sui costi) ma qualcosa che abbia maggiore valore aggiunto e consenta all’azienda margini tali da remunerare il lavoro in maniera accettabile. Il negoziato appena aperto con i sindacati e il governo probabilmente finirà su questo binario.
Non è una ipotesi di scuola. Electrolux, Indesit e Whirlpool, i tre giganti del settore che operano in Italia, hanno tutti e tre dichiarato che non intendono spostare dal nostro paese i centri di ricerca, perché in quel settore le competenze italiane sono forti e consolidate. Da quei centri di ricerca e dalla capacità dei manager di quei gruppi deve uscire la soluzione. Non solo per la sopravvivenza degli stabilimenti italiani ma per le quote di mercato dei loro marchi: Samsung ha annunciato la settimana scorsa il lancio di una nuova generazione di elettrodomestici “intelligenti”, digitalizzati, intercomunicanti, non sarà riducendo il costo del lavoro che Indesit, Whirlpool ed Electrolux reggeranno la sfida.
La proposta del gruppo svedese tuttavia, se non contiene le soluzioni, indica i problemi. Direttamente quello dei costi e, indirettamente, quello delle tipologie di prodotti. Sono problemi reali che il paese, e non solo il Friuli, deve affrontare. Il lavoro costa troppo rispetto a quello che arriva in tasca ai lavoratori per il famigerato cuneo fiscale, che è in Italia appena inferiore a Francia e Germania ma nettamente superiore non solo agli altri europei ma anche a Giappone, Stati Uniti e Corea. Costa troppo anche l’energia (questa volta non ci batte nessuno) e costa troppo (in tempo, in denaro e in pazienza) fare business. In più c’è il famoso contesto che pesa, dalle tasse alla formazione, alla giustizia, alle infrastrutture. Questi costi vanno ridotti non per inseguire la Polonia ma per favorire l’impresa, lo sviluppo, il futuro stesso del paese. E per consentire almeno di iniziare ad affrontare il secondo problema evidenziato dalla vicenda Electrolux: la tipologia dei prodotti. Quelli che hanno un basso valore aggiunto e sui quali la competizione è nei costi non sono più il futuro dell’Italia. Lo sono stati ai tempi del “miracolo”, quando erano in pochi a produrre e l’Italia costava poco (il boom degli elettrodomestici nel nostro paese è nato allora) ma non possono esserlo in un contesto radicalmente cambiato. Spostarsi verso l’alto è quello che hanno fatto il tessile abbigliamento, la meccanica strumentale, in parte l’alimentare, in parte la chimica, i settori che trainano il nostro export. In un certo senso è la scommessa che sta facendo Sergio Marchionne con la Fiat, passare da una gamma di prodotti medio bassa ad una medio alta. Con una incognita: è in grado il Paese di passare rapidamente ad una produzione di massa di beni complessi? Lo sappiamo fare dove dominano la creatività e il design, lo sappiamo fare nei settori di nicchia, lo sappiamo fare nei piccoli numeri - la Ferrari è il miglior testimonial di un prodotto complesso al massimo livello di qualità, ma in numeri piccoli - non sappiamo se siamo altrettanto capaci di innalzare il livello quando i numeri si fanno grandi. Ma questa è la sfida.
Un’altra cosa che la vicenda Electrolux, anche questa volta indirettamente ci dice, è il mutato atteggiamento delle multinazionali rispetto all’Italia. Se ne vanno via ogni giorno. Nel farmaceutico, che pure va bene, stanno tagliando molto, Merk, per citare uno dei colossi, è uscita; nelle telecomunicazioni, una volta presentissime nella produzione, sono rimasti pressoché solo i presidi commerciali, è il caso per esempio di Siemens e Alcatel, la lista è lunga. Le ragioni, secondo Giampiero Castano, che gestisce l’unità del ministero dello Sviluppo che si occupa delle vertenze (i tavoli di cui sopra), sono due: «I manager italiani delle multinazionali una volta contavano molto nei board internazionali e partecipavano ai processi decisionali, oggi sono pochissimi quelli che pesano nella holding. La seconda ragione è che avendo perso i vantaggi di costo che un tempo offriva l’Italia, e quelli di mercato, per la fatica della domanda interna, prevale la percezione di instabilità, di litigiosità, di incertezza delle regole. In alcuni settori, come le tlc, ha pesato anche l’assenza per vent’anni di una politica industriale».
Abbiamo detto che la vicenda Electrolux ci rivela solo una parte delle ragioni della crisi della manifattura italiana, perché ce n’è almeno un’altra, che emerge dall’analisi di quello che c’è sui famosi 161 tavoli e che viene indicata da quel 50% di situazioni di crisi che non dipendono primariamente né dai costi del lavoro e dell’energia né dalla mancanza di credito: è l’incapacità di adeguarsi al nuovo contesto competitivo. Ovvero, detto con le parole di Castano, «l’affievolirsi dello spirito imprenditoriale e la non adeguata capacità manageriale». L’Italia ha imprenditori e manager straordinari, come testimonia il successo delle tante imprese vincenti sui mercati internazionali, ma è come se il sistema fosse diviso in due con da una parte quelli che esportano e dall’altra quelli che arretrano. Sono i manager stessi ad ammetterlo. Secondo un sondaggio effettuato da Porsche Consunting tra 400 manager alla guida di imprese italiane industriali e di servizi (che pubblichiamo a pagina 39 di questo giornale), se il 72% ritiene che la competizione si giochi più sulla qualità che sui costi, solo uno su tre indica la ricerca e sviluppo come leva fondamentale e solo uno su quattro ritiene che i prodotti della sua azienda siano all’avanguardia. Il 28% ammette che la propria impresa non ha neanche un business plan e, tra quelli che lo hanno, il 42% lo ha solo a due anni. Poca innovazione, visione corta.
Molte delle aziende di cui il Mise si sta occupando ha problemi di organizzazione, automazione, arretratezza dei processi, tanto che in alcuni dei casi per i quali si è trovata una soluzione, Bridgestone e Natuzzi i più noti, è proprio con una nuova e più efficiente organizzazione del lavoro, nuove tecnologie e nuovi processi, che si è evitata la chiusura di stabilimenti e si sono rilanciate le produzioni. Con meno lavoratori e più macchine, ma non con zero lavoratori e fabbrica chiusa.
La conclusione è semplice (e la terapia difficile): 1) questo Paese non favorisce l’impresa e l’innovazione, bisogna che rimuova gli ostacoli e aiuti la ricerca; 2) il costo del lavoro è importante ma non determinante; 3) determinante è aumentare l’efficienza della produzione e la qualità del prodotto, il che richiede una qualità imprenditoriale e manageriale che oggi non è diffusa come dovrebbe. Vedere quali sono i problemi nella realtà è il primo passo per provare a risolverli.