Antonio Gnoli, la Repubblica 2/2/2014, 2 febbraio 2014
MASSIMILIANO FUKSAS – [DALL’ARCHITETTURA HO IMPARATO CHE L’ORDINE CONTA QUANTO IL CAOS]
In questa piccola storia orale affiora, ogni tanto, l’idea che il successo sia solo un ingrediente di una personalità che ha cercato altre ragioni nella vita. Almeno è ciò che Massimiliano Fuksas lascia filtrare di sé. Con indubbia abilità. È come se tutto ciò che vedo, che mi fa vedere, sia il frutto prospettico di una lieve illusione. Non è questo che in fondo regalano gli architetti più dotati: una solida e fondata (o fondabile) illusione? E allora eccomi calato, non lontano da Campo de’ Fiori, nei tre piani di morbidezza che sono poi quelli dello studio: bello, accogliente e abitato da una legione di giovani che si danno da fare intorno ai tanti progetti che Fuksas sta realizzando. Gli chiedo com’è il rapporto con questa generazione che ci ostiniamo a definire senza futuro. «Se ho cento persone qui, altre cento divise tra Parigi e la Cina, e quasi tutte sotto i trent’anni, è segno che qualcosa si muove. Al di là della crisi. Ma l’architettura è un mondo strano. Abitato da nani nelle viscere delle montagne e da elfi nelle foreste».
Un mondo fantastico?
«Diciamo dove la fantasia può ancora galoppare. E i giovani possono ritagliarsi la loro parte».
Di sogni ne sono rimasti pochi.
«Però è l’unica merce non ancora venduta in saldo. Penso alla mia storia come a una successione di eventi incompleti che i sogni hanno colmato di gioia e delusione. Piccolo inciso. A me non frega niente se un sogno si realizza o meno. Importante è averlo. È la risorsa inesauribile dei miei perché. Dalle mie origini in poi».
Da dove viene? Il nome non ha nulla di italiano.
«Nel periodo luterano, la mia famiglia, ebraica, emigrò dalla Germania in Lituania. Il mio bisnonno era un mercante di sale a Kaunas. Poi si trasferì a Vilnius. Fece abbastanza soldi per mandare i figli all’università. Ma era il periodo del dominio zarista e gli ebrei non potevano accedervi. Perciò spedì mio nonno ad Heidelberg. Dove conobbe Elisa e la sposò. Nacquero due figli: mio padre Raimondas e Anatole Pierre».
Che anni erano?
«Gli anni Dieci dello scorso secolo. Nel 1914 scoppiò il conflitto. Nel corso della prima settimana di guerra il nonno, medico, fu investito da una bomba. Una scheggia lo colpì in pieno e morì dissanguato. Nonna Elisa si rifugiò a Mosca con i due figli. Sposò in seconde nozze Harry Basin, direttore delle acciaierie moscovite. Anni tumultuosi. Poi, nel 1918, la Lituania proclamò l’indipendenza. Con il nuovo marito Elisa tornò a Vilnius. Non era la fotografia di una famiglia felice».
Perché?
«Perché Harry era un uomo autoritario e duro. Pretendeva che il figliastro studiasse ingegneria. Mio padre cominciò a detestarlo e alla fine decise di andarsene a Roma. Sulle orme del padre studiò medicina. Conobbe mia madre. Felicità presto interrotta dalle leggi razziali, dalla guerra e da tutte le aberrazioni legate al conflitto e al fascismo. Superammo anche quelle. Non bastò. Nel 1950 papà morì. Avevo sei anni».
Cosa faceste?
«La mamma accettò l’invito della nonna, che viveva non lontana da Vienna. La città divisa in zone di influenza. Eravamo nella parte inglese. Sebbene fossi nato a Roma avevo ancora il passaporto lituano e per questo non potevo accedere alle altri parti della città. Insomma, dopo un po’ tornammo a Roma. Andammo a vivere dalle parti del Gianicolo, vicino a Villa Sciarra. Iniziai le scuole elementari al Francesco Crispi. Una delle prime cose che chiesi fu chi era Crispi. Immaginavo fosse il proprietario della scuola. La mamma mi disse vagamente che era stato uno statista italiano. Ma fu Giorgio Caproni a fornirmi qualche dettaglio in più».
Caproni il poeta?
«Proprio lui. Fu il mio maestro alle elementari. Un giorno ci spiegò che gli uomini sono strani. E che la coerenza non è quasi mai il loro forte. Ci raccontò che Crispi era stato rivoluzionario da giovane. Che aveva perfino seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille e che da vecchio, a capo del Governo, stroncò i primi scioperi operai. Insomma diventò “pompiere”».
E lei ha paura di fare la stessa fine?
«Almeno sul piano politico non ho mai cambiato opinione. Le ingiustizie non mi piacevano quando avevo vent’anni e non mi piacciono ora che ne ho settanta».
Com’era Caproni insegnante?
«Grande sensibilità e ironia sommessa. Mi prese a ben volere. Forse incuriosito dalle mie origini o dalla mia timidezza. Non lo so. A volte mi invitava a casa. Viveva in un tristissimo palazzo in via dei Quattro Venti. Ricordo l’edificio in mattoni, il portone incongruamente monumentale, le piccole finestre verdi, l’appartamento povero. Una vita grama segnata però da due grandi passioni».
Quali?
«Il violino che ogni tanto suonava e il treno. Possedeva i piccoli treni Rivarossi. Confesso che ero più interessato a questi giocattoli che non alle sue poesie o alle sue traduzioni. Un pomeriggio mi parlò della dolce bellezza della lingua francese. Era un uomo semplice. Seppi in seguito che aveva sofferto enormemente. Nella suo dolore rispecchiò il mio, di bambino solo. In un certo senso mi adottò».
Ha avuto un’infanzia complicata?
«No, semmai disciplinata da una madre forte. Avevo un carattere ombroso. Ero magro, fragile e soprattutto mi sentivo solo al mondo. Con il tempo ho imparato a convivere con questa solitudine ».
Non dà l’impressione di un uomo solo.
«La mia socialità è forzata. Per il mestiere che faccio devo incontrare le persone, frequentarle. Ma vivo meglio con me stesso».
Come è giunto al mestiere di architetto?
«Non era tra le mie aspirazioni. La sola cosa che intendessi fare era l’artista. A 16 anni, grazie all’interessamento di Giorgio Castelfranco, andai a lavorare con Giorgio De Chirico. Mi sentivo pittore. Stare nella bottega di un grande artista, pensavo, era il modo migliore per migliorarsi».
Non andò così?
«Scartabellavo nell’archivio, rassettavo. Niente di creativo. E poi non si capiva mai se il maestro era contento. Mascherava la sua stizza permanente sotto un sorriso sornione. Per farla breve, finii il liceo — al Virgilio dove, tra l’altro, ebbi come professore di italiano un giovane Alberto Asor Rosa — e dissi a mia madre che volevo fare il pittore. Lei mi guardò e tutta seria commentò: vedo già l’ombra del fallimento dietro le tue spalle. Fu scoraggiante».
Ma aveva torto?
«Penso che valutasse una professione in termini di riuscita sociale. Pochi giorni dopo le risposi dicendole che mi sarei iscritto ad architettura. Fu laconica: ecco, è già meglio. Insomma feci rapidamente i miei studi. Ebbi la fortuna di scoprire, nella Londra degli anni Sessanta, il lato creativo dell’architettura. Di innamorarmi di una ragazza danese, raggiungerla a Copenaghen, e alla fine lavorare negli studio di Henning Larsen e poi in quello di Jorn Utzon ».
In che anno si laurea?
«Nel 1969. Ero uno dei pochi che non voleva fare carriera universitaria ma costruire. Fui considerato un traditore ideologico».
In che senso?
«Si pensava che l’architetto dovesse essere testimone della crisi. In linea con l’idea della morte dell’arte. Non credevo a quelle stronzate e sostenevo che se intraprendi una professione devi anche dimostrare cosa sai fare».
Cos’è per lei l’architettura?
«Non lo so, ogni volta mi trovo a dire una cosa differente. Però non può essere solo una struttura che funziona. Deve dare un’emozione. Essere il risultato di una passione».
Niente di razionale?
«La razionalità conta tanto quanto il caos».
Si spieghi.
«Senza il disordine non nasce niente. La disciplina, le scuole vanno bene. Ma fino a un certo punto. Poi ci sei tu e un oceano di passioni. Non c’è niente di romantico in ciò che dico. Ma devi seguire i flussi. Non sono mai stato il seguace di nessuno. Ho preso un po’ da tutti. Come il surf. Vai sulle onde se ci sono le onde».
Qualche nome.
«Louis Kahn mi insegnò il passaggio di scala; da Wright ho appreso la varietà dei soggetti; da Le Corbusier l’aspetto scultoreo e plastico; da Prouvé il lavoro nel dettaglio. Ma non li ho sposati. Semmai li ho traditi».
E tra gli italiani?
«Ammirazione per Gio Ponti. Un dandy meraviglioso. Capace di passare, con la stessa naturalezza, dal cucchiaino alla città. E poi Libera, Terragni, Piacentini. Una generazione straordinaria».
Cosa è lo spazio per lei?
«Non è la cosa più importante. È un mito che l’architetto si occupi di spazi. Semmai è lo spazio che si occupa di te».
E la luce?
«Fondamentale. Non ci sarebbe architettura senza la luce che esalta i volumi e il colore».
Accosterebbe la luce al divino?
«No. Piuttosto la vedrei come una realizzazione dello spirituale. Il divino, o meglio il sacro, non mi coinvolge. Richiede una fede che non ho. La spiritualità è un’esperienza che anche un non credente può vivere. Ci deve essere qualcosa che superi il pragmatismo. Quando l’architettura riesce ad andare oltre le sue funzioni, allora si scopre lo spirituale».
Prima faceva l’elogio del disordine. Da dove le nasce?
«Da una forma di indisciplina cronica».
Come quella che esibì negli anni della contestazione?
«Me lo chiede come se abbia commesso chissà cosa».
Si dice che fosse tra i più determinati.
«Non ho mai preso in mano un bastone. I poliziotti ci scacciarono dall’università di Valle Giulia, protestammo, ci inseguirono manganellandoci senza pietà. Vedere quei vecchi celerini, spesso con la pancia, che arrancavano era uno spettacolo terribile. Ricordo che con le mie Clark ai piedi non facevo che scivolare. E pensavo: ma cosa cazzo si inseguono, cosa cazzo si picchiano. Avevo il cuore in gola e l’adrenalina che girava a mille».
Il bello della rivolta?
«Era un mondo che stava cambiando».
Pasolini pensò che stesse cambiando in peggio.
«E aveva torto. Diceva che eravamo borghesi e fighetti. Tra di noi c’era il proletariato che cresceva e, soprattutto, piccola borghesia. Ho polemizzato con lui».
Lo ha conosciuto?
«Non bene. Vivevamo nello stesso quartiere. Abitava nella stessa palazzina di Attilio Bertolucci. Una volta lo incrociai mentre, con la madre, andava da Caproni. Ricordo che facemmo una partita di pallone in un campetto di periferia. Vidi una figura nervosa, muscolosetta, dotata di un indiscutibile stile. Finalmente rilassata. Poi, nello spogliatoio, si mise a fare a “dito di ferro” con dei compagni di squadra. Gli piaceva la vigoria fisica e la sfida virile».
Politicamente che giudizio ne dà?
«Aveva posizioni apocalittiche. Diverse comunque dal mio modo di essere di sinistra».
Cosa intende per “mio modo”?
«Dopo tante “seghe” mentali, alla fine penso che la sinistra va giudicata a seconda di quanti “no” dice. Se pronuncia troppi “sì” occorre diffidare».
Si sente un uomo contro?
«Credo che esistono ancora le ingiustizie e che possono essere contrastate. L’infelicità fa male a tutti: sia a chi la subisce direttamente, sia a chi la vive di riflesso».
Però il peso è diverso. Come vive i suoi privilegi?
«Quali?»
È ricco, famoso e per giunta di sinistra.
«Frank Gary una volta mi disse: fai tutto quello che devi, e se hai successo non te ne vergognare. L’importante è che non venga dalle cattive azioni».
Ha mai progettato per un costruttore, un palazzinaro?
«Mai. Non è il mio mondo. Quasi tutto il lavoro, a parte qualche cliente privato, passa attraverso i concorsi».
Le capita di dire: ho sbagliato?
«Sono un accumulo di errori. Se non ci fosse Doriana, mia moglie, a ricordarmelo e a correggermi finirei per perdermi. Lei mi protegge da me stesso».
Si sente psicologicamente dipendente?
«Si dipende da chi si ama. Mia madre ha toccato i 97 anni e non riesco a immaginare di poter fare a meno della sua onesta durezza».
È sposato da quanto tempo?
«Con Doriana da 34 anni. Prima c’è stata un’altra moglie. E quattro figli equamente ripartiti».
Come sono i rapporti?
«Con uno non ci parliamo da anni. E lo considero una mia sconfitta. Con gli altri va bene. Elisa ha da poco scritto un libro. Generazionale. Credo parli anche di me. E, sospetto, non del tutto favorevolmente».
Teme il giudizio degli altri?
«Dovrei temere quello di Dio. Ma sono ateo. Preferisco che si parli bene di me. Non sono di quelli che dicono: purché se ne parli».