Filippo Ceccarelli, la Repubblica 2/2/2014, 2 febbraio 2014
SE IL PAPARAZZO ENTRA IN POLITICA
Che direbbe Niccolò Machiavelli dei paparazzi? Qualche traccia si può trovare all’inizio del capitolo XIX del Principe, là dove scrive che il potere diventa “contennendo”, cioè disprezzabile, quando è considerato “vario”, ossia volubile, “leggieri, effeminato, pusillanime, irresoluto”. E qui pare proprio di sentirli — clic, flash, clic, flash — i paparazzi in azione. Appostati dietro qualche siepe in Costa Smeralda, lungo i viali del piacere notturno o in mare, pirati dello sguardo rapinoso, a caccia di intimità e debolezze sugli yacht. I loro agguati resi ancora più efficaci dalla tecnologia, auto- civetta, informatori, telefonini, cannoni visivi, elicotteri perfino.
“Da che — secondo Machiavelli — uno principe si debbe guardare come da uno scoglio e ingegnarsi che nelle azioni sue si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza”. Eh, pare facile! Un paio d’anni fa a Montecitorio, stanchi di essere beccati in aula mentre dormivano sui banchi, si ripassavano il trucco, si trastullavano con i videogiochi quando non consultavano siti di escort, gli onorevoli questori tentarono una stretta proponendo ai fotografi delle tribune di sottoscrivere una specie di impegno per non riprendere «comportamenti» non «essenziali per l’informazione». Figurarsela, l’essenzialità. È la caccia piuttosto che è nata con l’uomo e la politica lo stesso. Inevitabile “spiare”. Dice nulla che il più cliccato sito d’informazione si chiama Dagospia? Che la Santanché battezzò un suo rotocalco Io spio e che nel 2011 è stato messo in vendita l’archivio fotografico dall’agenzia Spyone?
E insomma: in un regime di finzioni ogni disfunzione che sfrondi l’alloro dei potenti, oltre a recare un prezioso brandello di verità, costituisce un salutare contrappeso politico. Poi sì, certo, dinanzi al nocchiero D’Alema che casca dal canottino, a Fini sub che mostra il conchiglione proibito, a Formigoni che si tuffa turandosi il nasino, a Bocchino sulla spiaggia con l’Ape Regina o ad Alfano che si fa fare la manicure sulla spiaggia, beh, la rilevanza di tali immagini è tutta da dimostrare, ai fini della democrazia.
Ma non si può mai dire. A suo tempo, per dire, restituì qualche senso alla vicenda P2 la paparazzata retrospettiva di Andreotti al fianco di Gelli in abito da sera; così come dice qualcosa, o molto, o troppo, e domani chissà, anche solo un fotogramma della giovanissima Francesca Pascale che si esibisce nella performance del calippo. Dal che s’intuisce che quasi tutto fa brodaglia; e se quest’ultima è all’arsenico o al curaro può anche accadere che il video-fantasma di Marrazzo, commercializzato ai massimi vertici editoriali e istituzionali, si sia tirato appresso chi dice uno, chi dice due cadaveri.
L’uso politico dei paparazzi, non di rado intrecciato all’universo dei poteri occulti, dei corpi separati dello Stato e degli investigatori privati, nasce con il caso Montesi (1953 e seguenti). C’era un fotografo, soprannominato “la mitragliatrice umana”, ad attendere nell’androne del palazzo dove uno dei grandi accusatori della Dc andava a divertirsi, per giunta con la moglie e un giovanotto minorenne. Poi quello stesso affare Montesi contribuì a ridisegnare, nel campo del potere politico, i confini invalicabili tra pubblico e privato. Al netto del clamore suscitato dalle foto dell’agonia di Pio XII — ma allora fu l’infedele archiatra pontificio a improvvisarsi paparazzo per rivendere gli scatti — quei confini resistettero per almeno un trentennio, durante il quale la selvaggina era limitata ai personaggi della decaduta nobiltà, dello spettacolo e dello sport.
Fermo restando che per i campioni dell’economia e del Palazzo il genere dell’indiscrezione fotografica ondeggiò a lungo tra sorriso e intimidazione, complicità e ricatto, qualcosa si smosse negli anni ’70. Lo testimoniano celebri e indimenticabili foto: Leone che fa le corna, Fanfani tirato per le orecchie, De Michelis che balla con l’attricetta dall’ampia scollatura, l’Avvocato Agnelli che si tuffa nudo dalla barca. Oggi sembrano robette innocue. Già meno lo era, anche considerato l’imminente attentato, l’istantanea di Papa Wojtyla che strizzava il costume da bagno in piscina. Ma tutto lascia pensare che quelle istantanee preparassero il terreno alla straordinaria inversione che domina il presente per cui, a farla breve, i sorveglianti si sono trasformati in sorvegliati. Varie e complesse ragioni devono aver determinato un ribaltamento, anche nel senso comune, che ha innescato l’intrusione pervasiva dello sguardo del pubblico all’interno di domini entro cui erano da sempre custoditi i segreti della sovranità. E può suonare come una scemenza, ma nacque proprio negli anni ’80 e ’90, eminentemente televisivi, la classe ibridata del Vip — e subito le si appiccicarono addosso i rotocalchi con la rubrica “Acchiappavip”. Forse la privacy arrivò troppo tardi, o come una foglia di fico. Intanto Occhetto baciò la moglie davanti a un obiettivo; e Craxi si lasciò sorprendere seminudo e malato in un ospedale tunisino. Tra affetti, drammi e mondanità compulsiva Cafonal era alle porte. Sempre più, per surrogare quel consenso che sentivano venir meno, i politici presero a mettersi in mostra, aprirono le loro case, gli album di famiglia, gli armadi, i frigoriferi, perfino le porte dei cessi. Era come dire ai paparazzi: eccoci, venite e scattate, scattate, qualcosa resterà.
Berlusconi, che proveniva proprio da quel coacervo di gusti, interessi e paradigmi culturali, ci mise del suo — e ne ebbe in cambio il dovuto. Dopo una prima sventagliata di immagini proibite, con lui che tocchicchiava un’attivista di Forza Italia tenendosela sulle ginocchia, fu apposto il Segreto di Stato su Villa La Certosa. Ma tempo due anni, sempre grazie al valoroso Zappadu, fu possibile vedere ciò che tutti immaginavano. Vistose ninfe sotto la doccia e soldati in mimetica con fucili mitragliatori: Venere e Marte avevano avuto il fatto loro da Mercurio Paparazzo, e pure a spese del Priapo Topolanek. L’Italia come una fotoromanzo pornosoft. Chissà Machiavelli, che già la vedeva ridotta “nel termine che ella è di presente”, e quindi messa già allora abbastanza male.