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 2014  febbraio 02 Domenica calendario

GERVINHO, FLAIANO E POCO ALTRO. IL RESTO SOLO CAZZATE


[Antonio Pennacchi]

Sono nato il 26 gennaio del ’50, ho 64 anni e sicuramente non sono stato un bravo ragazzo. Vada a chiedere in giro, domandi: ‘Com’era Antonio da giovane?’. Le diranno tutti che ero matto”. Pausa: “Anche se a me non sembra di essere guarito neanche adesso, sono una persona diversa”. Con la risata forte, il “vaffanculo” facile e un paio di consigli che sembrano filo spinato: “Se non siete Trilussa e non lo sapete scrive, non me fate sempre parlà in romanesco, lasciate perde. C’hai è sempre voce del verbo ciavere” il soldato Antonio Pennacchi si presenta al binario 14 della Stazione Termini. Ha scritto 15 libri, vinto il Premio Strega, disegnato la Storia sociale dentro il romanzo tra eredità e destini immutabili. È di cattivo umore: “Non è giornata, me sò preso il Lexotan, ma me pare che non me stia a fà nessun effetto”.
Agita il bastone, fuma, maledice la pioggia, onora i natali: “Latina è quella cosa che vuol dire prepotenza” e ricorda. La prima volta che scappò dalla famiglia per arrivare a Roma: “Mezzo secolo fa, con l’autostrada in costruzione, Ponte Galeria sullo sfondo, i cani che abbaiavano e il buio tutt’intorno. Il giro di boa della mia vita”. Il rimpatrio forzato nell’Agro Pontino: “La Polizia mi riprese dopo tre giorni, a Massa Carrara, non furono fiori”. Il senso dei suoi decenni tra fabbrica, politica, università e letteratura: “Nei miei libri c’è ironia, ma se legge il Momigliano capirà che l’ironia non è altro che la sublimazione del dolore”. Senza pugna, Pennacchi non respira. Deve litigare con il tassista: “Sei laziale? Senti, famme scenne, tu devi ringrazià che sto male, sennò te salutavo e andavo a piedi”. Duellare con il barista che promette di votare Renzi: “Io già sono incazzato e non ho capito perché devo trovà gente che me fa incazzà ancora di più, tu me devi spiegà perché quando D’Alema provò a evità vent’anni di guai e a fà le regole con Berlusconi era un infame e mò applaudite tutti ‘sto stronzo che viene da Firenze e ci terremo per almeno quindic’anni”. Incitare l’avventore occasionale alla spesa proletaria: “Fatte ridà i soldi, il caffè ce lo pagano loro, sono radical chic”. Sempre sorridendo, divertendosi, sbattendo porte e riaprendone altre.
La battaglia è un pretesto per conoscersi, incendiarsi nel’opposizione: “Da tempo ho capito che nessuno dice mai quello che pensa” e scaldarsi con la brace della ragione altrui. Un abbraccio. Un gioco. Un circo. Un’innocua guerra di parole. Il più prezioso dei lussi. L’ultima trascinante purificazione di un uomo con la sciarpa rossa al collo e i permessi premio dell’età: “Me possono esse’ rimasti solo dù cazzotti”. Ora siede in un ufficio. Parlerà per ore. I pugni fuori dalle tasche. Sulla poltrona.
Li ha usati molto? È vero che da ragazzo andava a tirare i sassi ai tifosi avversari?
Non sono belle cose, ma sono cose vere. Le macchine erano targate Frosinone e noi gli tiravamo i sassi. Andavo con le tasche piene anche senza aver visto la partita. Pensi come eravamo.
Il calcio era importante?
Ma che scherza? Sto cazzo de gol de Gervinho alla Juve è stata la cosa migliore di gennaio. Mao aveva capito tutto: “Il comunista deve essere un pesce che nuota nell’oceano delle masse”. Per questo bisogna interessarsi di pallone, tifare una squadra, tentare di integrarsi. Altrimenti che cazzo di pesce sei?
Anche Agnelli andava a vedere la Juventus.
Ho commesso un errore, avrei dovuto diventare juventino come Luciano Lama. Le masse stanno sempre con chi vince. Se le vuoi dirigere non devi stare né un passo avanti né uno indietro. Se sei troppo avanti, la massa non ti vede e tu te ne vai per i cazzi tuoi, sei un avventurista. Un cazzo di Bertinotti.
Lei tifa Roma e nella curva del Latina è amatissimo.
È la squadra del paese mio e non mi sarei mai aspettato di vederla in B. Dieci anni fa, dopo una sconfitta rovinosa, gli ultrà invasero il campo per menare i nostri. Li gonfiarono di botte. Scrissi un articolo con i commenti dei vecchi veneti trapiantati nell’Agro Pontino alla fine degli anni 20, al bar Pogdora.
Titolo?
“I gà fato ben”. Un plauso ai tifosi che, vaffanculo, avevano seguito quegli sfaticati fino a Trapani. Ma come? Mi imbarco per la Sicilia e tu non tiri fuori l’anima? Ai tempi della Fulgorcavi, la fabbrica in cui lavoravo che aveva una sua squadra di calcio, conobbi anche Eugenio Fascetti.
L’allenatore di Varese, Bari, Lecce, Torino e Lazio?
Lui. Uno con i coglioni, un uomo vero, un raro caso di fascista portato in palmo di mano dai comunisti. Fascetti aveva giocato nell’Inter e a fine carriera venne ingaggiato dalla Fulgorcavi per fare l’allenatore. Lo assunsero come impiegato. Prese la terza media con le 150 ore e portò la squadra in Serie D. Studiava con mia moglie Ivana. Senza di lei non avrei scritto una riga.
Come la conobbe?
Alla fine di un corteo disperso con la forza. Davanti alla fabbrica c’era un picchetto, un camionista decise di forzarlo e nel fuggi-fuggi, in piedi rimase una figura. Ivana. La donna della vita mia.
Sembra una storia molto costruita.
E allora fate come cazzo vi pare. È chiaro che per stare insieme 40 anni il lampo iniziale non basta.
Sua madre sostiene che parli a vanvera, sua moglie che sia verbalmente incontinente.
Hanno ragione entrambe. Invidio gli autori del passato, di loro rimangono solo le opere. Quei pochi imprudenti che hanno lasciato un archivio sono stati rovinati. La gente è curiosa, fruga nelle lettere, rimesta nel privato. Il dramma nostro è che rimarranno anche le stronzate dette in tv, sul web e sui giornali. Le tirate estemporanee che non sono il meglio di me. (Grandi colpi di tosse)
E dov’è il meglio?
In quello che scrivo. Nel filtro. Nella disciplina. La pagina non viene rivista meno di 25 volte. C’è maniacalità. Artigianato. Cura. Ossessione. Lavoro di notte e dormo di giorno. Mi sveglio tardi, verso le 16, se qualcuno non mi rompe i coglioni prima.
A ogni libro una sofferenza.
Porca puttana, non ha visto come cammino? Purtroppo è vero. Con il primo libro l’ernia al disco, con il secondo l’infarto, con il terzo un altro infarto. Poi 5 mesi di carrozzella, il tunnel carpale, il fuoco di sant’Antonio, ‘sta cazzo di tendinite al piede. Li pago perché è così che deve andare e invecchio perché accade. Lo accetto l’invecchiamento. Lo accetto.
Il suo primo libro, Mammut, collezionò 55 rifiuti.
Più o meno prestampati: “La ringraziamo ma non rientra nella nostra linea editoriale”, cose così. Provai con gli pseudonimi, mi ero rotto i coglioni.
Dopo essersi iscritto a 40 anni all’Università ha vinto il premio Strega con Canale Mussolini.
Io credo che non si possa chiedere a uno che ha vinto il premio Strega, di parlarne male. E comunque è stata una cosa importante, ha cambiato la prospettiva e pensavo mi avesse pure pacificato. Era un’illusione, mi sto a rincazzà un’altra volta. (Ride alla Pennacchi, un lieve movimento sussultorio di approvazione con le braccia che accompagnano fisicamente la battuta)
Nel suo ultimo libro, Storia di Karel, viaggia tra presente e passato in una fantascienza bucolica, astratta, fantasiosa e concretissima.
Avrebbe dovuto avere 12 personaggi che raccontandosi, svelavano una comunità. Avrei voluto fino in fondo l’effetto Rashomon, quello di cui tutti gli intellettuali si riempiono la bocca, ma quando ne parli ai produttori, chissà perché, nessuno lo vuò ffà. Costa fatica, dicono. A proposito di Rashomon, la versione di Kurosawa mi rompeva i coglioni, ma L’oltraggio, il remake americano, è una cosa straordinaria, una roba da buttarsi per terra.
Quanti altri film ha visto così?
Insomma, per Storia di Karel niente effetto Rashomon. Non c’è stato niente da fare. Non passava. “È pretenzioso” dicevano. È probabile che sia pretenzioso anche il libro. Forse ho osato troppo, la gente voleva Canale Mussolini 2.
Ma trasfigurati ci sono tutti i suoi eroi, i profili in tuta blu, le paludi.
I “sideral-chic” del web hanno storto il naso. Eccepivano sul futuro con i contadini sullo sfondo, sulla veridicità, sulle stronzate. La verità è che la fantascienza è solo un genere, nei libri metti sempre te stesso e il ragazzino del libro sono io, rimasto alla Latina degli anni 50. Più vai avanti e più ti rendi conto che quello che ti ha fatto muovere e ti farà muovere per il tempo che ti resta sono quelle dieci emozioni rubate all’infanzia e all’adolescenza. I ricordi più antichi che hai dentro, gli odori, i sapori. E così continuerai a essere anche tra 20.000 anni.
Senza evoluzione?
Dovremmo avere la capacità di vederci per quello che siamo. Non il centro dell’universo, ma una piccola parte del tutto. Un granello. Agricoltura e civiltà esistono solo da 10.000 anni. Il cammino è lento. Però procede. Ieri eravamo dominati solo dall’istinto, oggi proviamo a ragionare. Poi certo, a qualcuno scappa la mano e si spara per un sms di troppo al cinema o si accoltella per un parcheggio. Ma io non mi stupisco della violenza, mi sorprendo di quanta poca ce ne sia. Territorio di caccia e spazio vitale sono esigenze ancestrali. A superare la violenza arriveremo, stiamo costruendo il passaggio. Aumenterà lo spazio della poesia. Della riflessione.
Cosa ricorda della violenza delle lotte?
Che il casco l’ho messo. E il bastone in mano l’ho tenuto. E le ho prese. E le ho date. Anche aspettando al varco i capi reparto. Fino al dicembre del ’69 furono solo randellate. Dopo cambiò tutto. Nessuno aveva il diritto di uccidere. I clienti della banca, Pinelli, Calabresi. Ma di quella guerra civile non si capisce niente se non si parte da Piazza Fontana.
Ha detto guerra civile?
Ho detto guerra civile. E dopo la guerra, come fece Togliatti, si concede un’amnistia provando a chiudere una pagina senza mancare di rispetto alle vittime.
Lei fece parte della Volante rossa.
E quando passavamo, la gente ci applaudiva: “Viva i compagni del servizio d’ordine”. L’ho spiegato anche a Gad Lerner che negava. Non rompessero i coglioni. Senza servizio d’ordine non si sarebbe distribuito neanche un volantino. Eravamo o no l’embrione dell’esercito popolare? Dovevamo o no fare la rivoluzione? Non ho reati di sangue e tecnicamente non ho fatto la lotta armata, ma gli anni di piombo li ho vissuti. Adesso si parla di violenza e sono sempre discorsi precotti, a senso unico. Altra cosa è chi si oppone al Tav. Le proteste sono reazionarie. È un fenomeno da Vandea, è tornare indietro, è destra. Non si può essere contro il Tav. Io resto classe operaia e sono affezionato all’idea che l’unica emancipazione possibile sia nello sviluppo e nel progresso.
A proposito di treni, a Roma viene spesso. La convincono i primi mesi di Marino?
Dopo Veltroni, stanchi di Rutelli, i romani votarono a destra. Poi con la neve e tutto il resto si ruppero le palle anche di Alemanno. Mò la prossima volta i romani voteranno a vita per quegli altri, madonna santa, Marino è incredibile, ma come si fa? Non era ‘bbono a fa er chirurgo? E va a fa er chirurgo allora, no?
Amici scrittori?
Anche se scriviamo e pensiamo cose diverse, Erri De Luca fu molto disponibile con me. Stimo Silvia Avallone, ma quelli che sento più vicini sono Paolo Nori e Antonio Pascale. Mi piacciono. Sono autentici. Sinceri. Non fanno sconti al lettore. Non consolano. “Questo è così”, altrimenti vaffanculo. Più che autofiction fanno auto-fission che in francese non è solo autofinzione, ma autofissione, tentativo di dissezionarsi, quasi fusione nucleare. Il mio procedimento è diverso. Sarei portato a fare come loro e in vecchiaia non escludo di adottare il flusso di coscienza, però fino ad ora non l’ho fatto, perché mi sono ripromesso un fine. Cercarmi negli altri raccontando gli altri perché alla fine, sono una testa di cazzo come tutti gli altri. Rispetto a Nori e Pascale comunque ho avuto una fortuna: sono stato insieme agli altri in fabbrica.
Grandi d’Italia?
Manzoni, Beppe Fenoglio, il più grande scrittore del ‘900, e Flaiano. Tempo di uccidere rimane un libro enorme. Peccato che poi lo stronzo si sia messo a fare cinema. Doveva scrivere romanzi. Il meglio della sua produzione l’ha rubato Fellini che si pavoneggiava sostenendo che i suoi film fossero senza sceneggiatura. Ma vai a fare in culo! 8 e 1/2 è l’autobiografia di Flaiano.
Italo Calvino?
Di autentico non c’è niente, ha copiato gli altri e rifatto tutto Stevenson, per dire.
Punti fermi della letteratura angloamericana?
Penso a Steinbeck, a Mario Puzo, a John Fante.
Don de Lillo?
Grande, ma non grandissimo. Molto meglio di Roth. Un rompicoglioni che guarda il suo ombelico. Se lo incontro mi voglio far ridare i soldi del Lamento di Portnoy. Due coglioni. Due palle. Di Roth esiste solo Joseph.
Sosteneva che l’uomo che non aveva visto la fabbrica affrontasse la vita in maniera più pratica. Se l’avesse vista manovrare la Conica, un mostro di 30 metri che non permette margine di errore, forse avrebbe cambiato idea.
L’infortunio sul lavoro era un’eventualità. Quando sali in macchina non pensi di poter morire. Andavamo a lavorare e se capitava di farti male, ti facevi male.
Fatalista?
Realista. Se sono un buon padre, un buon marito e soprattutto un buon nonno è grazie alla fabbrica. Mi ha aiutato a superare la mia famiglia d’origine e a cercare la comunità, la solidarietà, l’amicizia. Mi ha accompagnato nel costruire la mia di famiglia. In fabbrica ho imparato tutto.
Non era la fabbrica pensata da Adriano Olivetti.
Ma che cazzo me ne frega di Adriano Olivetti? (Pausa) Ha perso sia come industriale che come dirigente politico, che è più grave.
Compromessi sul terreno?
Voi andate a rompere il cazzo a Eni e a Fin-meccanica perché pagano le tangenti all’estero, ma avete idea di come funzionino industria e commercio? In fabbrica passammo un brutto periodo, 5 mesi senza stipendio. Al bivio tra il chiudere in attesa di finanziamenti o lavorare gratis, non dubitammo. Non potevamo uscire dal mercato. In piena autogestione, i dirigenti erano deboli. Sapevano del nostro rigore e ci temevano, quando però le commesse iniziarono a dimezzarsi e ce ne proposero una dal Venezuela con tanto di richiesta di tangente, urlammo in coro: “Correte, andate a pagà”. Non è morale, ma la vita pratica ha le sue urgenze. Lo vorrei spiegare anche a Travaglio.
Dica.
Il suo metodo non mi piace. Siccome tu sei stato amico di quello o sei stato fotografato in una particolare circostanza, devi essere stato per forza amico di quell’altro. Di tutto mi si può accusare, ma non di essere berlusconiano. Se tu mi dici che i suoi primi capitali erano sporchi e che ha pagato il pizzo, non ho nessunissima difficoltà a crederti. Ma so cosa è il capitalismo e so che Berlusconi è stato uno di quelli che al cantiere presenziava alle 5:30 di mattina. Si è fatto un gran culo. Poi non è stato un santo e dopo aver comprato la Standa ha anche mandato a casa un sacco di persone svendendole al compagno Benetton che se l’è inculate a dovere. Ma non era il mandante delle stragi del ’93 né il capo della mafia.
Sempre in guerra lei.
Resto amico di Israele e virtualmente, anche un volontario della Guerra dei Sei giorni. A casa, ho ancora la lettera di Ehud Avriel che mi ringrazia. Anche se poi, per fortuna mia e loro, non mi hanno arruolato. Con la sfiga che ho li facevo perdere sicuramente.
Cosa rimarrà dei suoi libri?
Se pensate che i miei libri restino state freschi. Forse ho gratificato l’ego o forse ho scritto perché ce l’avevo dentro. Se nasci cicala non puoi morire che cicala.