Sandro Modeo, La Lettura - Corriere della Sera 2/2/2014, 2 febbraio 2014
IL MITO DELLA COSMOLOGIA LAICA CHE AFFASCINA E DIVIDE LA SCIENZA
Anche solo fino a qualche anno fa, i buchi neri erano soprattutto oggetti astronomici al vertice di una mitologia-cosmologia laica. Dei Moloch senza volto o degli immani pozzi cosmici le cui caratteristiche più insinuanti (la bulimia di materia circostante e l’arrestarsi del tempo sulla superfice sferica esterna o «orizzonte degli eventi», dove la temperatura è migliaia di volte quella del Sole) sono state usate dalla fantascienza per configurare implosioni apocalittiche o corridoi verso mondi paralleli. La scienza stessa, del resto, li ha a lungo considerati con scetticismo: Karl Schwarzschild, l’astrofisico tedesco che ha scoperto nel 1916 proprio le dimensioni del «raggio» dell’orizzonte degli eventi, pensava che quei «mostri siderali» fossero forse solo fantasmi di modelli matematici. Ora un denso libro di Alessandro Marconi, astrofisico con cattedra a Firenze (I buchi neri , Il Mulino, pp. 142, e 9,80), ci mostra quanto il rigore analitico e le acquisizioni più recenti allontanino quella soggezione mitologica, col risultato — in apparenza paradossale — di acuire, non depotenziare, lo stupore di chi si avvicini all’argomento; anche se, va detto subito, il libro è divulgativo solo nella scorza, con molti passaggi (preceduti da troppo disinvolti «ovviamente» e «chiaramente»), che richiedono non superficiali conoscenze fisico-matematiche.
Marconi non trascura nessun versante. Sul piano storico, per esempio, risale all’archeo-osservazione di fine Settecento, quando il reverendo John Michell e Pierre Simone Laplace parlano di «stelle nere» e «corpi invisibili» per identificare oggetti così massicci da non far uscire la luce dalla loro superficie; e chiarisce poi, attraverso le scoperte einsteiniane, come quell’intrappolamento non dipenda tanto dalla gravità, quanto dalla curvatura «assoluta» dello spaziotempo, cui nemmeno la luce — che pure non ha massa — può sfuggire. Sul piano descrittivo-esplicativo, ci presenta ogni tipo di buco nero: quelli stazionari e quelli con rotazione, quelli stellari (prodotti dall’esplosione di una supernova e con una massa superiore a almeno 10 masse solari) e quelli «supermassivi», con una massa di milioni o addirittura miliardi di volte quella solare. E sul piano tecnico-metodologico, per finire, ci illumina sui nuovi strumenti di risoluzione spaziale, dai telescopi di ultima generazione (da Hubble in poi) alle «ottiche adattive», che permettono di correggere — con specchi a deformazione controllabile ed elaborazioni al computer — il degrado delle immagini provocato dalla turbolenza atmosferica.
La chiave di volta del libro è il rapporto tra i buchi neri supermassivi e i nuclei galattici attivi (Agn) come i quasar, regioni molto più piccole rispetto alla galassia che contribuiscono a formare, ma dotate di compattezza e densità estreme, nelle quali all’accrescimento del buco nero corrisponde l’emissione di un’immensa quantità di energia e luminosità. Come in una matrioska, il buco nero è a sua volta molto più piccolo del nucleo attivo (massa di 1 a 1.000), ma la sua gravità è tale da essere decisiva nella dialettica tra il nucleo stesso e la galassia in formazione; nell’equilibrio tra forze attrattive e repulsive (le radiazioni) che presiede al formarsi delle stelle come di ogni altra struttura cosmica. Consumandosi in questa complessa dinamica e isolandosi dal contesto, il buco nero è osservabile alla fine come un residuo fossile dell’attività dell’Agn, o come un’«impronta gravitazionale» lasciata nello spazio che ha abbandonato. Non solo. Mostrando gli esempi dell’Agn della nostra galassia, la Via Lattea (Sagittario A, col suo buco nero Sagittario A*, ora inattivi) e di Agn di altre galassie (NGC 4258, nella costellazione dei Cani da Caccia, osservato da lui stesso e dai colleghi a Baltimora nel 1996), Marconi colloca questa simbiosi o coevoluzione tra buco nero e Agn lungo l’evoluzione dell’universo. L’antefatto (appena 400 mila anni dopo il Big Bang, in fasi di espansione e raffreddamento) è lo scremarsi di «aloni di materia oscura», «strutture autogravitanti» all’origine delle proto-galassie: materia che incidendo anche sulla materia barionica (quella che conosciamo e di cui è fatto ciò che vediamo, cioè il 4 per cento della materia in assoluto) innesca l’azione di buchi neri e nuclei galattici. A differenza degli aloni, però, sia i buchi neri che le galassie si formano per via antigerarchica, dal grande al piccolo: i buchi neri (se si eccettuano i «seed black holes», i «semi» delle origini) diventano supermassivi già 800 milioni di anni dopo il Big Bang; e le galassie si presentano estese (come le ellittiche) 1-2 miliardi di anni dopo.
Sono dati coerenti con l’iniziale densità dei quasar (tanto da far parlare di una loro «era»), che tra i 13 e i 10 miliardi di anni fa erano mille volte più diffusi rispetto a oggi. In questa prospettiva, i buchi neri si trasformano da Moloch voraci in regioni (in sequenze) di interconnessione e regolazione nel formarsi ed evolversi delle strutture cosmiche. E non è quindi sorprendente che Stephen Hawking — perdendo la sfida che John Preskill aveva lanciato a lui e al fisico del Caltech Kip Thorne, di cui è appena uscito da Castelvecchi il classico Buchi neri e salti temporali — abbia addirittura negato nei giorni scorsi, su «Nature», l’esistenza dei suoi oggetti cosmici prediletti, in quanto la materia e l’informazione in entrata non verrebbero annientate, ma «rimescolate» e riemesse. Anche uno dei più autorevoli fisici italiani, Carlo Rovelli (in un capitolo del suo ultimo libro, La realtà non è come ci appare , Cortina) va in parte in questa direzione, sostenendo come la materia attratta in un buco nero arrivi — per effetto della gravitazione quantistica, operativa a grandezze scalari impercettibili — a una densità altissima ma non infinita, diversamente da quanto succede in un punto simile a quello che ha prodotto il «rimbalzo» del Big Bang; e come il buco nero, diventando sempre più piccolo e alla fine evaporando, la liberi nello spazio circostante.
Ma questa nuova visione dei buchi neri rilancia anche tesi cosmologiche più generali e audaci, che avvicinano l’evoluzione cosmica a quella biologica. Se già Lee Smolin aveva formulato un parallelo tra la selezione naturale negli organismi e nelle specie e quella tra universi in competizione (coi buchi neri protagonisti), di recente lo zoologo Andy Gardner di Oxford l’ha rafforzato applicandovi l’equazione di Price, impiegata di solito per descrivere l’incidenza della selezione sulle mutazioni genetiche; anche se è evidente quali problemi comporti un’analogia così spericolata, dato che non è semplice trovare nei processi evolutivi cosmici equivalenti strutturali e funzionali degli organismi biologici. Siamo, quindi, nella pura speculazione. La sola certezza è che se i buchi neri non appaiono più come tali, presto dovranno essere chiamati in altro modo. Anche il grande John Wheeler — il fisico che nel 1967 aveva coniato l’espressione — probabilmente sarebbe d’accordo.