Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 02 Domenica calendario

ERN , ALLO ZOO DELLE PARTICELLE LA SFIDA È LA SUPERSIMMETRIA


Camminare tra i laboratori del Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari di Ginevra, significa compiere un viaggio nella storia della fisica. I vialetti sono dedicati ai nomi rimasti impressi nella nostra memoria scolastica: si incontrano tutti, da Democrito a Einstein fino a Oppenheimer, da Planck a Born e Fermi. Personaggi appartenenti a una scienza emersa in tempi e luoghi diversi. Ma ora ciò che si percepisce è che la fucina della nuova fisica e della futura spiegazione della materia di cui siamo fatti noi e le stelle (e delle forze che la tengono insieme) sia proprio qui: a cavallo del confine tra Svizzera e Francia dov’è cresciuta una città della ricerca che ha persino evocato fantasie cinematografiche estreme e terrificanti.
Nelle sale dove il silenzio è rotto solo dal brusio dei computer è scaturito Angeli e demoni di Dan Brown, portato sullo schermo da Ron Howard, immaginando addirittura una bomba di antimateria trafugata da un laboratorio e portata in Vaticano dalla setta degli Illuminati per distruggerlo. E in una direzione ancora più catastrofica andava qualche fantasia umana nei giorni in cui si accendeva il più potente acceleratore mai costruito, il Large Hadron Collider (Lhc), nel settembre 2008, quando sul web correva voce che lo scontro dei protoni nel suo anello potesse generare buchi neri capaci persino di distruggere la Terra. Invece, ascoltando gli scienziati del Cern, i rivoli neri di alcune menti si trasformano in sogni affascinanti, quasi fantascientifici. Perché i loro pensieri inseguono una realtà straordinaria che abbatte le cognizioni del passato, offre tracce e conferme di idee a lungo coltivate, proiettandoci verso intuizioni prima impossibili.
La conferma che siamo alle soglie di un cambiamento profondo che entusiasma non solo gli scienziati, è stata la scoperta al Cern — dopo un’acerrima battaglia con il Fermilab americano di Chicago — del bosone di Higgs, teorizzato mezzo secolo fa e ora riconosciuto con il Premio Nobel a due dei suoi padri: il belga François Englert e il britannico Peter Higgs. «Il bosone — racconta a “la Lettura” Sergio Bertolucci, direttore scientifico del Cern — è stato un passo fondamentale perché ha completato il Modello Standard, cioè la teoria che spiega l’architettura dell’intimità della materia. Tuttavia sappiamo quanto sia limitata e incompleta, perché spiega meno del 5% del mondo che ci circonda. E il resto è formato al 25% da materia oscura e per il 70% da energia oscura, entrambe battezzate “oscure” perché non sappiamo di che cosa si tratti. Il Modello Standard, poi, non comprende la gravitazione: non riusciamo a capire perché sia così debole rispetto alle altre forze della natura; non spiega perché la massa del bosone di Higgs sia così bassa; né dove sia finita l’antimateria che all’origine dell’universo doveva essere presente tanto quanto la materia nota».

Per questo nei laboratori ginevrini hanno organizzato numerosi esperimenti e costruito svariate macchine al fine di decifrare i complicati segreti e arrivare a un disegno più corretto. Talvolta apparentemente distanti nei loro obiettivi, queste indagini si presentano oggi, sessant’anni dopo la nascita del Cern, come tanti fiumi di esplorazione che corrono verso un unico mare, dove la nozione di una particella nascosta nell’atomo aiuta a cogliere l’infinità dell’universo: «Ogni esperimento affronta un aspetto del puzzle e il nostro compito è metterli insieme, trovare un legame comune», aggiunge Bertolucci.
Importanti risposte si aspettano dal Large Hadron Collider perché nessuna macchina è stata capace di raggiungere la sua energia, grazie al violento scontro di immense nubi di protoni accelerati quasi alla velocità della luce, riproducendo così le condizioni dell’universo appena un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, il grande scoppio da cui tutto ha avuto origine.
«Con Lhc cercheremo di trovare le prove della materia oscura — suggerisce Bertolucci — e il candidato è la supersimmetria, cioè l’insieme delle particelle che dovrebbero esistere in parallelo a quelle note». A un fotone corrisponderebbe ad esempio un fotino, e poi ci sarebbe il neutralino, lo squark e un nuovo, esotico zoo di particelle. L’idea della supersimmetria era partita dal fisico teorico italiano Bruno Zumino che ancora oggi a 91 anni è attivo a Berkeley, in California. «Riusciremo a osservarla se all’inizio dell’universo è avvenuta una sua rottura spontanea. Ma com’è accaduto? Abbiamo un modello di ciò che potrebbe essere accaduto chiamato Minimal Supersymmetric Model, ma non funziona molto bene. La risposta l’avremo quando il super-acceleratore riprenderà a funzionare a pieno regime nella primavera prossima dopo gli interventi di manutenzione. Sarà allora che potrà raggiungere il massimo delle capacità, cioè 14 Tev, e sarà come passare da una macchina utilitaria alla Formula Uno. Dalla supersimmetria passeremo poi alla verifica delle extradimensioni ipotizzate con la teoria delle stringhe», ovvero la teoria che cerca di conciliare la meccanica quantistica con la teoria delle relatività di Einstein inseguendo il sogno di una teoria del tutto che spieghi la materia unificando le leggi attuali. Nella teoria delle stringhe si ipotizzano diverse dimensioni, almeno una decina. Si spera di vederne qualche traccia anche se molti fisici contestano l’idea.
Uno dei capitoli che più appassionano gli scienziati del Cern riguarda l’enigma dell’antimateria generata dal Big Bang, ma poi misteriosamente scomparsa. La caccia avviene con l’esperimento Lhc-b collegato al superacceleratore, mentre alcuni ipotizzano universi paralleli di antimateria che, se venissero a contatto con il nostro, si distruggerebbero a vicenda. «La natura — spiega Pierluigi Campana, che guida la ricerca — decise che doveva scomparire nei remoti momenti iniziali. Come e perché sia avvenuto lo vogliamo scoprire. Nel 1964 fisici americani hanno proposto un meccanismo noto come “violazione CP” dal quale emergerebbe che le antiparticelle sfavorite decadono prima delle particelle di materia normale. Purtroppo finora non si è raccolta traccia di questo mondo con i satelliti e con il rilevatore Ams installato sulla stazione spaziale. Sembra che manchi un pezzo di fisica ancora sconosciuta e che impedisce di arrivare a comprendere l’enigma».

Non a caso le ricerche sull’argomento seguono diverse strade mirate a decifrare la natura stessa dell’antimateria cercando di vedere, ad esempio, se la legge della gravità mantiene le stesse prerogative. Due esperimenti provano proprio a cogliere le differenze. Con Asacusa (Atomic Spectroscopy and Collision Using Antiprotons) nelle scorse settimane si è prodotto un getto record di 80 atomi di anti-idrogeno. «E con Elena (dalle iniziali di Extra Low Energy Antiproton) — aggiunge Walter Oelert — rallentando gli antiprotoni abbassandone l’energia, riusciremo forse proprio a scoprire eventuali effetti differenti delle gravità».
Ma nel centro ginevrino si guarda anche a fenomeni più consueti, come le nuvole, apparentemente lontani dalle tradizionali indagini. Invece si pensa che la pioggia di raggi cosmici che costantemente arriva dallo spazio possa esserne in qualche modo responsabile. È per questo che si è avviato il progetto Cloud con il quale, attraverso una camera che riproduce le caratteristiche dell’atmosfera alle varie altezze (inserendo pure alcuni inquinanti), si cerca di capire se i raggi in caduta, ionizzando l’aria, generino dei nuclei di condensazione attorno ai quali si formano nubi. Se così fosse, diventerebbe uno degli elementi da indagare in relazione al riscaldamento globale. «Intanto — aggiunge Sergio Bertolucci — ci prepariamo a lavorare sulla frontiera del neutrino facendo ricorso al rilevatore Icarus costruito nei laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e in collaborazione con il Fermilab di Chicago. Molta fisica del futuro dipende dai segreti di questa effimera particella, forse all’origine della materia oscura. Insomma, adottiamo diverse strategie per capire la materia».
Oggi il Cern, anche grazie alla sventurata decisione americana di abbandonare il super-acceleratore Superconducting Collider (Ssc) che il presidente americano Bill Clinton decise di cancellare perché troppo costoso, è diventato il più importante laboratorio mondiale per le ricerche di fisica fondamentale. Nel frattempo il complesso dei laboratori segnato dalle vie dei grandi del passato si è trasformato in una vera cittadella della scienza che alimenta gli studi e i sogni di 15 mila scienziati provenienti da tutto il mondo: 4 mila rappresentano lo staff permanente e altri 11 mila sostano periodicamente.
La comunità più vasta è rappresentata dai ricercatori americani, una fuga dagli Usa verso l’Europa. E al secondo posto ci sono gli italiani. Ben 1.300 sono di casa ma il numero vero sarebbe in realtà di 1.800 perché gli altri 500 sono stati arruolati da istituti stranieri, americani o di Paesi europei, Spagna compresa. Massiccia presenza frutto del grande sforzo compiuto dall’Istituto nazionale di fisica nucleare che, nella tradizione di Enrico Fermi e Edoardo Amaldi, ha mantenuto elevato il livello della formazione dei giovani. «Un livello — conclude il direttore scientifico del Cern — che rischia di essere compromesso nel futuro per i tagli alla ricerca».