Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 2/2/2014, 2 febbraio 2014
LE SCELTE RINVIATE NEL PAESE CHE FRANA
Una tabella dice tutto: nell’ultimo mezzo secolo le frane sono state tredici volte di più che nella seconda metà dell’800. O San Defendente non sa più fare il suo mestiere di patrono oppure, dato che i meteorologi escludono che siano avvenuti mutamenti epocali,
è colpa di come l’Italia è stata gestita.
E sarebbe ora di ricordarcene non solo quando, come in questi giorni di diluvio, viviamo l’incubo di nuove tragedie.
La statistica, elaborata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy» e ripresa ne L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013 , a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, è chiara: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. Parallelamente crescevano morti e dispersi: 614 nella seconda metà dell’Ottocento, 4103 nell’ultimo periodo considerato.
Certo, la registrazione degli eventi è probabilmente più curata oggi di un tempo. Ma proprio il passato deve essere di monito. Prendiamo la catastrofe di Sarno del 1998 che uccise 160 persone: prima che venisse giù un pezzo di montagna, c’erano state 5 frane in un secolo (dal 1841 al 1939) e 36 (una all’anno) dopo la seconda guerra mondiale. Eppure l’area aveva una densità abitativa sei volte più alta della media italiana.
Giorgio Botta, ne L’Italia dei disastri , ricorda che «il grado di dissesto idrogeologico della Campania è il più grave tra quelli in atto nel Paese». E tra le cause di tanti disastri cosa c’è? Le colate di fango «prodotte da terreni completamente denudati dagli incendi dolosi che si ripetono ormai sistematicamente da anni». L’anno prima dell’apocalisse di Sarno, nel 1997, ne erano stati contati 1.486. E «gli incendi bruciano perfino le radici degli alberi, rendendo definitivamente sterile il suolo».
E sempre lì torniamo, al monito, mezzo millennio fa, di Francesco Guicciardini: è vero «che le città sono mortali, come sono gli uomini», ma «essendo una città corpo gagliardo e di grande resistenza, bisogna bene che la violenza sia estraordinaria e impietosissima ad atterrarla. Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città».
Vale per le frane, per i terremoti, per le alluvioni. E se Roma ha passato momenti di apprensione per la piena del Tevere, Paolo Camerieri e Tommaso Mattioli ricordano nel libro citato che la città eterna è stata allagata un sacco di volte fin dai tempi più antichi e che dopo aver liquidato la deviazione del fiume come un’«opera superflua e troppo costosa» senza per questo fermare la spinta edilizia nelle aree a rischio «incrementando enormemente il livello di pericolosità dell’onda di piena», nel 13 a.C. ci furono «migliaia di morti». E ciò nonostante trent’anni dopo, in seguito a un’«ennesima alluvione catastrofica», come racconta Tacito, le divisioni sulle cose da fare divisero il Senato al punto che «si finì con l’accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla».
Certo, non è facile fare delle scelte in questo campo. La stessa Venezia ci pensò trent’anni, prima di decidersi a costruire «un nuovo sboradore al fiume Po», cioè un canale che raccogliesse una parte delle acque del fiume. Alla fine, però, decise. E con i consigli di «otto pescadori» (accanto ai professori dotti e sapienti la Serenissima affiancava sempre gente dalla visione più pratica) costruì in quattro anni, coi badili e le carriole, quel grande canale lungo sette chilometri che tanti danni avrebbe evitato nei secoli a venire.
Gli studi del geologo Vincenzo Catenacci dicono che «tra il 1948 e il 1990 ben 4.570 comuni italiani sono stati interessati da calamità di tipo idrogeologico, che hanno causato 3.488 vittime, di cui almeno 2.477 a seguito di frane e almeno 345 a seguito di inondazioni, nonché danni a carico dello Stato stimati in circa 30 miliardi di euro, rivalutati al 2010». E Marco Amanti ricorda che il progetto Iffi «contiene più di 480.000 eventi franosi censiti, il più antico dei quali risale al 1116». Eppure, finché non ci troviamo con l’acqua che uccide invadendo interi quartieri abusivi come a Olbia, finché non fa crollare le mura antiche di città come a Volterra, finché non tira giù i costoni facendo accasciare su un fianco i treni in Liguria, il problema della sistemazione del territorio viene rinviato, rinviato, rinviato.
Basti ricordare la reazione dello stesso governo Letta alla risoluzione firmata da tutti i gruppi parlamentari che chiedevano uno stanziamento per il rischio idrogeologico «pari ad almeno 500 milioni annui».
Risposta in finanziaria: 30 milioni. Un sedicesimo della somma richiesta. Nonostante la denuncia che «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’89 per cento dei comuni (6.631)» e che «il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia».
Scrive Claudio Margottini che «nei Pai (Piani stralcio per l’assetto idrogeologico) vengono individuati più di 11.000 interventi riconosciuti come necessari alla sistemazione complessiva dei bacini, per un fabbisogno di circa 44 miliardi di euro, di cui 27 miliardi per il Centro-Nord e 13 miliardi per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il recupero e la tutela del patrimonio costiero. Di questi, circa 11 miliardi sono necessari per mettere in sicurezza le aree a più elevato rischio…».
Eppure, come denuncia Monica Ghirotti, tutti i disastri già registrati «sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana». Insomma, ci penseremo domani. E nel frattempo? Portiamo un cero a san Defendente…