Sergio Rizzo, Corriere della Sera 2/2/2014, 2 febbraio 2014
QUEL LUNGO SILENZIO SULLE 25 POLTRONE
Che potesse mangiare un altro panettone all’Inps, in realtà non gli era mai passato per la mente. Fosse accaduto, gli sarebbe andato di traverso. Mastrapasqua si vedeva già la prossima primavera alle Poste.
Puntava alla poltrona da dodici anni occupata da Massimo Sarmi. Tutti i tasselli sembravano al posto giusto. Compreso l’appoggio della Cisl, sindacato potentissimo fra i postini e che lui aveva coccolato oltre decenza piazzandone gli uomini nei posti chiave.
Ma era prima. Prima che venisse alla luce la brutta vicenda dei rimborsi gonfiati all’Ospedale israelitico, per cui risulta indagato. Prima che fosse riesumata la faccenda dei suoi molteplici incarichi pubblici e privati. Prima che il governo di Enrico Letta, per ironia della sorte il nipote del suo più grande protettore, stabilisse che chi guida un ente pubblico deve farlo in esclusiva. Prima che un giornale, Libero, raccontasse la storia di una vecchia condanna a dieci mesi per la compravendita di esami universitari: con lui che sostiene di essere stato completamente riabilitato.
Difficile individuare la goccia che ha fatto traboccare il vaso, spingendolo ieri a dimettersi. Fino a venerdì notte, però, non era una eventualità da lui contemplata. Perché come tutti i maratoneti sa che in una corsa lunga un imprevisto può sempre capitare: ma bisogna resistere.
Basta guardarlo, Mastrapasqua, per capire che il suo fisico segaligno è modellato sulla corsa di resistenza. Ne ha corse tante, insieme a Giampaolo Letta, il capo di Medusa, la società di produzione cinematografica di Silvio Berlusconi. Giampaolo è il figlio di Gianni, lo zio di Enrico e braccio destro del Cavaliere. Sono amici dai tempi della scuola, al San Leone Magno: ancor di più ora, al circolo Canottieri Aniene dove sgambetta tutta la Roma che conta.
Corre forte, il maratoneta Mastrapasqua. Troppo forte per Alfredo Antoniozzi, figlio dell’ex ministro democristiano Dario, a sua volta politico dc e poi forzista, del quale è collaboratore. A un certo punto stacca pure lui, per agganciarsi definitivamente a Gianni Letta. Il Nostro passa per essere un brillante commercialista nell’avviatissimo studio del papà. Così, quando l’Ospedale israelitico, struttura convenzionata con la sanità pubblica, finisce nei guai, Letta lo propone per il salvataggio. E chi meglio di lui quando c’è da riempire un posto nel consiglio di amministrazione dell’Inps? Di nuovo, è Gianni Letta che fa il suo nome. In quegli anni da semplice consigliere il maratoneta corre senza sosta. Trovando il tempo anche per curare i propri affari, scrive nel libro «Tutti a casa» Mario Giordano, raccontando come fa a conquistare una residenza principesca in via Filippino Lippi a Roma, nel cuore dei Parioli: compra per un milione e mezzo di euro due case dell’Inail dagli inquilini che le hanno acquistate dall’ente qualche giorno prima.
Mastrapasqua sa dove vuole arrivare: in cima. Il suo protettore è potente, ma ci vuole qualcosa di più. Come un appoggio dentro l’istituto. Allora si lega alla Cisl e al direttore generale Vittorio Crecco. Preparandosi a fare le scarpe al presidente Gian Paolo Sassi.
Accade quando l’Inps entra in Equitalia con il 49 per cento. La vicepresidenza della società dovrebbe andare al numero uno dell’istituto. Ma quando Sassi sta per assumere l’incarico, ecco la solita telefonata da Palazzo Chigi: «Il posto è di Mastrapasqua, non si discute». E non è una poltrona da nulla, considerando che nel 2011 garantiva al suo occupante, dice la Corte dei conti, 465 mila euro l’anno. Il triplo del presidente. Quella telefonata è una investitura in piena regola. La nomina di Mastrapasqua al vertice Inps viene approvata in Parlamento anche dal Partito democratico. Se ne occupa l’ex ministro del Lavoro unionista Cesare Damiano in persona. Mentre nessuno bada agli oltre cinquanta incarichi che in quel momento riveste. Non il governo Berlusconi che lo mette lì. Non la Cisl, che lo protegge. Neppure la sinistra, che fa finta di non vedere. Figuriamoci poi se è lui a sollevare il problema, che esiste eccome. Perché fra i suoi incarichi ci sono concessionari pubblici come Autostrade, c’è il Coni, c’è il gruppo Telecom, ci sono aziende statali e private, che magari possono avere in ballo contenziosi con l’Inps. C’è l’Ospedale israelitico, di cui è direttore generale: con un debito, ha rivelato Milena Gabanelli, di 42 milioni per contributi previdenziali non pagati che rischiano di andare in prescrizione e dovrebbe recupere quell’Equitalia di cui Mastrapasqua, guarda caso, è vicepresidente.
A chi si stupisce di questa girandola di conflitti d’interessi, replica serafico: «Ma lei lo sa quanto è modesto lo stipendio del presidente dell’Inps?». Niente lo sfiora. Le polemiche sugli incarichi attizzate da «Report». Le critiche della Corte dei conti sul fatto che governi l’Inps come un monarca e le consulenze esterne siano lievitate come la panna montata. Le punzecchiature per via di una campagna televisiva nella quale sembra pubblicizzare il bifidus. Le indiscrezioni sulle decine di incarichi di sua moglie Maria Giovanna Basile, sindaco di aziende pubbliche come Rai, Aci, Acea... Le battute sulle ditte onnipresenti in certe forniture, tipo la società Triumph habitué degli appalti governativi che spesso lavora in tandem con l’azienda di catering del genero di Letta, Stefano Ottaviani.
Tanto meno lo infastidiscono i conti in tasca che gli fanno quando il governo Monti decide di tagliare gli stipendi dei supermanager pubblici, scoprendo che tutte quelle poltrone gli fruttano almeno un milioneduecentomila euro l’anno. Anzi. Proprio Monti da potente che era lo rende potentissimo, affidandogli pure l’Inpdap e prorogando di trenta mesi per decreto il suo incarico. Roba da strabuzzare gli occhi. Il ministro Elsa Fornero, che pure non lo ama, si deve adeguare. Il memorabile scontro fra i due sul numero degli esodati lo potrebbe far saltare, ma lui resta al suo posto. Finché il maratoneta inciampa.
Ora i dietrologi si potranno dedicare alla ricerca dell’autore dello sgambetto. Ci sta, in un Paese come questo.
Almeno un paio di cose, però, sono assodate. La prima: c’è chi è più responsabile di lui. Sono i politici che l’hanno nominato, i sindacalisti che l’hanno coperto, i lobbisti che l’hanno sostenuto. La seconda: questa vicenda trasuda di ipocrisia. Quanti di coloro che fanno a gara a bastonarlo oggi hanno osato criticarlo quando era ai vertici del potere? Detto questo, Mastrapasqua torni a fare il commercialista a tempo pieno. Lo farà ancora meglio. Ma deve sapere, e con lui i politici, che la sua esperienza nel pubblico finisce qua.